Migranti, fermati tre carcerieri. Le testimonianze: “Nei campi in Libia tutte le donne violentate, gli uomini torturati”

di redazione Blitz
Pubblicato il 16 Settembre 2019 - 09:08 OLTRE 6 MESI FA
Migranti, fermati tre carcerieri

(Foto Ansa)

MESSINA  –  Associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all’omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione: sono queste le accuse nei confronti di tre uomini fermati a Messina. In base alle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Palermo i tre avrebbero trattenuto in un campo di prigionia in Libia, a Zawyia, decine di profughi pronti a partire per l’Italia, li avrebbero torturati, picchiati, violentati, in alcuni casi uccisi. 

I tre sono Mohammed Condè, detto Suarez, originario della Guinea, di 27 anni, Hameda Ahmed, egiziano di 26 anni, e Mahmoud Ashuia, egiziano di 24 anni. Sono stati riconosciuti dalle loro vittime, sbarcate a Lampedusa lo scorso 7 luglio dopo essere state soccorse dalla nave Mediterranea, grazie alle foto segnaletiche mostrate loro dalla polizia che, dopo ogni sbarco, fa visionare ai profughi le immagini di migranti giunti in Italia in viaggi precedenti proprio alla ricerca di carcerieri o scafisti. I fermati erano arrivati in Italia qualche mese prima delle vittime.

Condè, secondo l’accusa, aveva il compito di catturare e tenere prigionieri i profughi e chiedere ai familiari il riscatto. Solo dopo il pagamento le vittime potevano proseguire il loro viaggio. Era sempre lui a dare ai profughi il cellulare per chiamare a casa e chiedere il denaro. Ahmed e Ashuia sarebbero gli altri due carcerieri: le vittime hanno detto anche di essere state torturate e malmenate da entrambi, hanno raccontato di essere state sottoposte ad atroci violenze fisiche o sessuali e di aver assistito all’omicidio di decine di migranti.

Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un “telefono di servizio”, tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia. 

Il racconto dei migranti: “Tutte le donne vengono violentate”

“Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiate all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni”: questo il racconto di una delle vittime dei carcerieri del campo di prigionia di Zawyia. “Le condizioni di vita, all’interno di quella struttura, erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare denaro in cambio della nostra liberazione. Ci davano un telefono col quale dovevamo contattarli per dettare loro le modalità di pagamento. Durante la mia prigionia – ha raccontato ancora l’uomo – ho avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare”.

“Tutti noi migranti eravamo divisi in gruppi per nazionalità e per sesso – ha spiegato un’altra vittima – Le donne erano messe tutte insieme, mentre noi uomini eravamo divisi per la nazione di appartenenza. Io, ovviamente ero con i camerunensi. Le condizioni di vita del carcere erano dure. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno e ciò non bastava per placare la nostra fame, mentre l’acqua era razionata e non potabile, poiché bevevamo l’acqua del rubinetto del bagno. Tutti i giorni venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri. I carcerieri erano spietati. – spiega – Il capo del campo si chiama Ossama ed è un libico. Vestiva in abiti civili ed aveva delle pistole sempre con sé. Ho visto morire tanta gente, – racconta – in particolare due fratelli della Guinea che sono deceduti a causa delle ferite subite nel campo. Con me all’interno di quel carcere c’era mia sorella Nadege che purtroppo è morta lì per una malattia non curata. Mia sorella aveva al seguito le due figlie di 7 e 10 anni che sono ancora detenute in Libia. Ho visto che molte donne venire violentate da Ossama e dai suoi seguaci”.

Il procuratore: “Condizioni di vita inumane”

“L’indagine che ha portato al fermi di tre presunti carcerieri di un lager libico ha dato la conferma delle inumane condizioni di vita all’interno dei capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l’umanità”: lo ha detto il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. L’inchiesta è stata avviata dopo lo sbarco a Lampedusa di un gruppo di migranti che hanno raccontato le torture subite in Libia. (Fonte: Ansa)