Nada Cella, la Simonetta Cesaroni di Chiavari: delitto irrisolto dopo 18 anni

CHIAVARI, GENOVA – Si chiamava Nada Cella e aveva 24 anni nel giorno in cui fu uccisa, alle 9.13 di lunedì 6 maggio 1996. Faceva la segretaria, era una ragazza diligente e riservata ed è stata ferocemente ammazzata. Ma per la sua morte non si è mai trovato un colpevole.

E ripercorrendo la sua storia non si può non pensare a quella di Simonetta Cesaroni, la vittima del “delitto di via Poma” che per 30 anni è stato sviscerato da inquirenti, giudici, giornalisti e programmi televisivi. Senza mai arrivare al nome dell’assassino.

Il caso di Nada Cella sembra ancora più difficile da risolvere: manca il movente, manca l’arma del delitto, mancano le prove in gran parte distrutte nei concitati attimi in cui Marco Soracco, il commercialista datore di lavoro di Nada, trovò il suo corpo riverso in una pozza di sangue, ancora tremante per i quindici colpi ricevuti da “un oggetto lungo e pesante”.

Nella foga dei soccorsi, inutili perché poi Nada morirà in un letto d’ospedale alle tre del pomeriggio, la scena del delitto viene “inquinata” e vengono cancellate quasi tutte le tracce che potrebbero portare all’assassino. A partire dal sangue che la povera segretaria ha perso copiosamente e che viene lavato da Marisa Bacchioni, madre di Marco Soracco.

Il Secolo XIX ha ricostruito tutta la vicenda estraendo un brano del libro “Liguria Criminale – dieci casi insoluti di cronaca nera” di Andrea Casazza e Max Mauceri, edito dai Fratelli Frilli:

Genova – E’ mattina. Un tranquillo lunedì mattina, con le strade più vuote del solito, le saracinesche della gran parte dei negozi abbassate, il sole che finalmente spezza le nubi di un inverno che non vuole lasciare il passo alla primavera. E’ mattina. Una mattina qualunque in un’elegante cittadina di mare che aspetta l’estate per animarsi davvero. C’è un ufficio al secondo piano di una via del centro. Un ufficio come tanti in un palazzo come tanti, con la facciata a mattonelle azzurre e verdi, i poggioli a ringhiera decorati con maioliche multicolori. L’ambiente è questo. Rassicurante, persino un po’ noioso. Che cosa può accadere in un posto così? Sono le nove e tredici minuti del mattino. Le 9 e 13 di lunedì 6 maggio 1996.

Nella sede della Croce Verde di Chiavari squilla il telefono. E’ una chiamata di soccorso appena più concitata delle altre. C’è un’emergenza: una ragazza è stesa a terra in un ufficio a poche centinaia di metri da lì. Ha il corpo scosso dai tremiti dell’agonia, il capo sprofondato in una pozza di sangue. Eppure nessuno pensa a un’aggressione. Non ci pensano i militi dell’ambulanza che in pochi minuti giungono sul posto, soccorrono la ragazza ferita e la portano d’urgenza all’ospedale di Lavagna. Non ci pensa Marco Soracco, l’uomo che ha dato l’allarme e che, da cinque anni, è il datore di lavoro dell’impiegata ferita a morte. Non ci pensa sulle prime neppure la polizia, che non transenna la zona, non fa intervenire la Scientifica.

Chi poteva volere la morte di Nada Cella, 24 anni, anonima impiegata nello studio di un commercialista? Chi poteva odiarla a tal punto da farne scempio, infierendo sul suo corpo con quindici colpi brutali, cinque dei quali le hanno sfondato il cranio? Chiunque sia stato è in questi primi minuti, nel concitato susseguirsi dei soccorsi, che trova il suo miglior alleato. Il velo dietro il quale nascondersi, il passaporto per l’impunità. Perché saranno proprio i primi soccorsi e, paradossalmente, i primi e inutili tentativi di salvare la vita a Nada Cella, a cancellare molte delle tracce utili per risalire al suo assassino. A trasformare in un rompicapo un giallo destinato a rimanere insoluto.

Ma torniamo a quel lunedì mattina e spostiamo l’orologio indietro di appena tre minuti: alle 9 e 10. E’ quella l’ora in cui Marco Soracco, 34 anni, commercialista in Chiavari, una solida e rispettata famiglia alle spalle, apre la porta del suo ufficio, al secondo piano di via Marsala 14, a due passi dal centro della cittadina rivierasca. Soracco abita al piano di sopra con la madre, Marisa Bacchioni e con la zia Fausta che, in realtà, occupa l’appartamento attiguo al suo. Sarà proprio Marisa Bacchioni a fornire agli inquirenti l’orario preciso in cui si alza il sipario sul delitto.

«Stamattina ho fatto notare a Marco che era in ritardo. – spiegherà subito agli uomini della polizia guidati dal vicequestore Pasquale Zazzaro – “Sono già le nove e dieci”, gli ho detto. E lui mi ha risposto di non preoccuparmi che, certamente, Nada era già arrivata e che aveva già aperto l’ufficio». Sono le nove e dieci, dunque, quando Soracco apre la porta del suo studio di commercialista all’interno 5. E bisogna tenerlo bene a mente, perché i minuti, nella ricostruzione di questo delitto, sono importanti. Sono uno dei pochi elementi sui quali la polizia potrà contare per cercare di ricostruire quanto accaduto. Perché tutto si svolge nell’arco di poco. Non più di dieci minuti, un quarto d’ora al massimo. Quando Marco Soracco apre la porta dello studio la luce dell’ingresso è accesa. Non è normale che lo sia. Nada aveva l’abitudine di accenderla all’arrivo dei clienti e di spegnerla subito dopo averli accompagnati nel suo ufficio o in quello del suo capo. Ma è un fatto sul quale l’attenzione si accentrerà solo più tardi e che, comprensibilmente, non colpisce più di tanto il commercialista. Anche perché, proprio in quel momento, squilla il telefono e lui affretta il passo per raggiungere il suo studio e alzare la cornetta.

Ma arriva troppo tardi: quando dice “pronto” dall’altra parte hanno già riattaccato. Niente di strano, capita spesso in qualsiasi casa. Non così spesso in un ufficio, però, dove c’è una segretaria che, normalmente, si occupa di rispondere al telefono. Come mai Nada non lo ha fatto? Se lo chiede anche Marco Soracco alla seconda telefonata che giunge di lì a pochi secondi: questa volta è un cliente che lui liquida in meno di un minuto. Poi si alza e va a vedere che cosa stia facendo la sua segretaria, perché non risponda al telefono. E’ così che scopre il delitto. Lo studio del secondo piano di via Marsala è costituito da un ingresso e quattro vani. Appena entrati, a destra, si apre l’ufficio del commercialista, subito dopo quello di Maria Mazzini, neolaureata che sta facendo praticantato, il terzo vano è occupato dal bagno e in fondo, dalla parte opposta, c’è l’ufficio in cui lavora Nada Cella. Marco Soracco percorre i pochi metri che separano il suo ufficio da quello della giovane impiegata, si affaccia sulla porta e posa lo sguardo su una scena a dir poco raccapricciante. Nada Cella è riversa a terra, la schiena sul pavimento, la testa piegata da un lato, verso la parete. Ha le gambe parzialmente nascoste dalla scrivania, i lunghi capelli castani le coprono parte del viso. A terra ci sono i suoi occhiali e la borsetta. E c’è tanto sangue. Molto sangue intorno. C’è sangue sul pavimento accanto al corpo della ragazza, sangue su uno spigolo della scrivania e sul muro lì vicino. Nada Cella non è morta. «Era scossa da tremiti alle braccia e alle gambe – dirà più tardi alla polizia la madre di Soracco – tant’è che, vedendo tutto quel sangue attorno, con mio figlio abbiamo pensato che fosse stata colta da un ictus».

Che cosa ci fa Marisa Bacchioni nello studio? E’ stato il figlio a chiamarla. Davanti a quello scempio, Marco Soracco risale a casa, chiede aiuto alla madre e chiama un’ambulanza. Sono le 9 e 13. Pochi minuti dopo in via Marsala arrivano i militi della Croce Verde e una prima volante della polizia. Il corpo di Nada Cella viene adagiato su una barella e portato via. La ragazza perde molto sangue. Una lunga scia che corre lungo il corridoio e l’ingresso dello studio, sulle scale del palazzo e nel tratto di marciapiede che viene percorso per raggiungere l’ambulanza parcheggiata a un paio di metri dal portone di via Marsala 14. Una lunga striscia di sangue che Marisa Bacchioni si premurerà di ripulire, lavando scale e ingresso dello studio. Perché nessuno, né il figlio né soprattutto gli agenti di polizia presenti, la ferma? La risposta più semplice è perché nessuno sino a quel momento pensa a un delitto e ripulire le scale di un palazzo lordate da chiazze di sangue sembra del tutto normale. Peccato che, in questo modo, vengano lavate via anche le possibili impronte lasciate dall’assassino. Nada Cella arriva all’ospedale di Lavagna ormai in fin di vita. Qui le prestano le prime cure. Per farlo le tagliano via da dosso gli abiti, un paio di fuseaux neri e una camicetta, e le rasano i capelli. In questo modo vengono spazzati via altri elementi che sarebbero stati utili alle indagini. Ma in quei momenti, ovviamente, l’importante è cercare di salvare la vita alla ragazza.

Le ferite alla testa sono profondissime. Ha tagli in diverse parti del corpo fra le quali una accanto al pube, profonda un paio di centimetri, che richiede due punti di sutura. Lo sfregio di un maniaco? Sarà una delle prime ipotesi sulle quali lavoreranno gli inquirenti. La ragazza viene trasferita a Genova, nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Martino. Vi morirà poche ore dopo, alle tre di quello stesso pomeriggio, spalancando dietro di sé un baratro di dolore e di mistero. Il dolore della sua famiglia che da quasi dieci anni chiede che sulla sua morte sia fatta giustizia. Il mistero di un delitto del quale è rimasto oscuro persino il movente. Torniamo allora indietro, a quel lunedì mattina, 6 maggio 1996.

Quella mattina Nada Cella si alza alle sette. Vive in via Piacenza 351, una palazzina rosa a tre piani alla periferia di Chiavari, all’altezza del viadotto dell’autostrada. Vive con la madre, Silvana Smaniotto che fa la bidella alla scuola “Caboto” in via Sant’Antonio, dalla parte opposta della cittadina rivierasca. Suo padre Bruno, 58 anni, falegname, abita invece ad Alpepiana, una piccola frazione di Rezzoaglio della quale è stato sindaco, in Val d’Aveto. Non c’è nulla di strano in tutto ciò. La separazione non è dovuta a dissapori familiari ma, più semplicemente, a ragioni pratiche. Così come molti altri abitanti dei paesini dell’entroterra, Bruno Cella ha preso casa a Chiavari per consentire alla figlia di proseguire gli studi. La madre si è trasferita con Nada e, a sua volta, ha trovato lavoro in città. Al paese, Alpepiana, le due donne tornano, oltre che in estate a trascorrere le ferie, ogni fine settimana. Anche il sabato precedente il delitto ci sono andate. Ma quel sabato è successo qualcosa di strano, qualcosa che, all’indomani del fatto di sangue, si ammanta di mistero.

Il sabato mattina, prima di partire, Nada ha fatto un salto in ufficio. Un fatto strano perché lo studio Soracco, come si legge nella targa in ottone posta sul portone del caseggiato di via Marsala 14, è aperto il lunedì, il mercoledì e il venerdì. E, in ogni caso, il sabato per la giovane impiegata non è giorno di lavoro. Che cosa è andata a fare Nada quel sabato mattina in ufficio? E’ uno dei tanti interrogativi senza risposta. Marisa Bacchioni, madre di Marco Soracco, dirà agli investigatori di essersela vista comparire davanti mentre stava mettendo in ordine l’ufficio del figlio. «Le ho domandato che cosa ci faceva lì e lei mi ha risposto che aveva bisogno di chiedere a mio figlio conferma su un consiglio che aveva dato a un cliente».

La ragazza telefona effettivamente a Marco Soracco che la rassicura che tutto è a posto, salvo poi stupirsi, qualche giorno dopo, ripensando al fatto che quella stessa domanda la sua segretaria gliela aveva già posta il giorno prima. Era solo una scusa? Marisa Bacchioni sembra avvalorare con gli inquirenti questa tesi. Lo fa dicendo di aver notato che Nada, prima di andare via, si era fatta scivolare in borsa un dischetto del computer. Che cosa contiene quel dischetto? Il corso di inglese che, come aveva raccontato la stessa Nada a Penny, la sua insegnante, stava riversando sul computer del lavoro? Ma se è così, perché Nada lo va a prendere con tanta urgenza, visto che ad Alpepiana non ha alcun computer sul quale “leggerlo”? Oppure quel floppy disc contiene qualche informazione legata al suo lavoro, qualche dato che doveva rimanere segreto? E ancora: Nada lo aveva nella borsetta, il lunedì mattina, e il suo assassino lo ha portato via con sé? Mistero. Di fatto di quel floppy disc non si è mai trovata traccia.

Nel pomeriggio di sabato 4 maggio, in ogni caso, Nada è nella casa di Alpepiana dove trascorre anche l’intera domenica, leggendo e prendendo il sole in terrazzo. La sera torna a Chiavari con la madre. Niente di strano. Niente di anormale. Al contrario: tutto secondo un copione di tranquilla riservatezza che un pochino stride con la giovane età di Nada. Com’è che una ragazza di 24 anni, spigliata e carina, passa il suo tempo libero in casa, in un paesino dell’entroterra, con la riviera a portata di mano e la primavera alle porte? Fermiamoci dunque un attimo e cerchiamo di capire chi è Nada Cella.

Probabilmente la descrizione più sintetica che di lei si possa dare è quella che si legge nella scheda conservata all’istituto delle suore Gianelline di Chiavari, dove Nada ha frequentato il corso di perito aziendale ed è stata promossa nel 1990 con 57 sessantesimi. “Una ragazza riservata e riflessiva, dotata di ottime capacità di rielaborazione e sintesi, precisa e corretta nell’esposizione, ha studiato in modo sistematico”. Un ritratto che riecheggia in quello che di lei danno tutti quelli che la conoscono e frequentano: ad Alpepiana come a Chiavari, le sue amiche del cuore (Deborah e Antonia che vivono a Milano, Elisabetta che ha conosciuto proprio alle Gianelline) come i clienti dello studio Soracco o i negozianti della zona: precisa, ordinata, riservata, intelligente. Una brava ragazza, insomma. Di quelle di una volta, senza grilli per la testa. Di quelle, aggiungono in paese, come non ce ne sono più. Una ragazza tutta studio e lavoro, senza mai una trasgressione che non fosse qualche serata trascorsa in discoteca, l’estate, con le “amiche milanesi”, a Rocca d’Aveto.

«Nessun flirt nel passato e, meno che meno, nel presente», è il coro delle amiche e dei suoi genitori, della sorella maggiore Daniela, impiegata a Milano, e del cognato Corrado, ex corridore automobilistico. Un unico innamoramento, una sbandata, una manciata di anni prima, per un uomo di dieci anni più vecchio di lei. Una storia finita che forse ha lasciato il segno sbarrando la strada ad altri amori. Di lui, di questo unico fidanzato, si occuperà la polizia nei giorni immediatamente dopo l’omicidio cancellando subito il suo nome dall’elenco dei sospetti: vive e lavora in Veneto e per il giorno del delitto ha un alibi di ferro. Per il resto una vita tranquilla quella di Nada, senza scossoni: unici svaghi, i corsi di ginnastica seguiti in una palestra chiavarese di via Salietti (che aveva smesso di frequentare da due mesi per via di una slogatura) e quelli di inglese alla London School di corso Garibaldi.

«Nada era una ragazza con degli obbiettivi – dirà, scostandosi un poco dal coro, Penny, la sua insegnante di inglese – voleva cambiare la sua vita, aveva ambizione. Per questo studiava inglese e tedesco: pensava a un miglioramento professionale, non le bastava fare la segretaria. Era una ragazza intelligente e con un forte senso dell’ironia». Per quell’estate che non avrebbe vissuto, aveva in progetto di andare in vacanza in Grecia con le sue amiche che vivono a Milano. Le stesse con le quali, l’anno prima, era stata a Parigi. Nella cucina e nella sua camera da letto della casa di Alpepiana ci sono fotografie che la ritraggono felice, i capelli castani, lunghi e ondulati, a incorniciare il volto che si apre a un sorriso contagioso. Il sorriso di una ragazza di 24 anni che ha ancora tutta la vita davanti a sé. Il sorriso spento per sempre da una furia omicida che non ha trovato né un nome né un movente. Una furia che si è scatenata e orribilmente placata nel breve volgere di dieci minuti. Torniamo allora ancora una volta alla mattina del delitto. Proviamo a farli scorrere al rallentatore quei minuti.

Partiamo dalla palazzina di via Piacenza. La sveglia per Nada quel lunedì suona alle sette. Lei inizia a lavorare alle nove ma quella mattina si alza prima perché si è offerta di accompagnare in auto la madre a scuola. Da casa le due donne partono alle 7,20 e, una ventina di minuti dopo, Nada saluta sua mamma in via Sant’Antonio, davanti alla scuola “Caboto”. «Grazie del passaggio, le ho detto – ricorderà qualche giorno dopo l’assassinio Silvana Smaniotto – Lei mi ha sorriso e detto semplicemente “ciao mamma”. E’ l’ultima frase che le ho sentito pronunciare, l’ultima volta che ho sentito la sua voce». Lasciata la madre Nada torna a casa. Subito? Non è detto. La perizia tecnica disposta dal sostituto procuratore della Repubblica di Chiavari Filippo Gebbia, stabilirà che il computer dello studio Soracco è stato acceso alle 7,50. Lo ha acceso Nada? E se non lei, chi può averlo fatto? Una cosa comunque è certa. Nada quella mattina torna in via Piacenza, posteggia l’auto sotto casa, rifà i letti, apparecchia la tavola di cucina per il pranzo, riesce inforcando la bicicletta con la quale raggiunge il posto di lavoro. La bici, un’ ”Acquarello” dal telaio rosso tenue, un cestino di vimini attaccato al manubrio, viene ritrovata chiusa con il lucchetto sotto i portici di via Marsala, proprio davanti al portone dello studio Soracco. Quanto tempo ci vuole a percorrere il tragitto da via Piacenza a via Marsala in bicicletta? Dai quindici ai venti minuti, non di più. E, in effetti, c’è chi la incontra sulle scale del palazzo e sa dire esattamente a che ora: le 8,35.

A dirlo alla polizia è Luciana Signorini, 36 anni di età e gravi problemi psichici. A lei, che a Chiavari tutti conoscono perché è solita girovagare per il centro chiedendo soldi e sigarette, gli investigatori arrivano attraverso uno scontrino fiscale. Uno scontrino ritrovato nel cestino della carta dell’ufficio di Nada. E’ stato battuto alle 19,58 del giorno precedente, domenica, al bar Entella a pochi passi da via Marsala. L’importo è di 1700 lire, quello di un cappuccino e Nando Perego, il barista, data l’ora inusuale, si ricorda a chi l’ha servito. Lo ha servito a Oscar Signorini, ex marittimo ed ex cuoco, padre di Luciana. I Signorini abitano allo stesso piano dello studio di Soracco. Ma che cosa ci fa quello scontrino nell’ufficio di Nada? La riposta è più banale di quella che ci si possa aspettare. Oscar Signorini è conosciuto nel palazzo per la brutta abitudine di gettare rifiuti per terra, pezzi di carta, cicche di sigarette, biglietti del bus… La cosa più probabile, stabiliscono gli inquirenti, è che lo scontrino sia stato raccolto da Nada sulle scale, prima di entrare al lavoro e gettato nel cestino dell’ufficio, oppure che lo abbia fatto Marisa Bacchioni quando ha ripulito le scale dal sangue della ragazza ferita. Di fatto la polizia, seguendo la labile traccia di quel foglietto di carta, arriva ai Signorini e a Luciana che dice di aver incontrato Nada per le scale alle 8,35. Come fa ad essere così sicura dell’ora? Semplice: glielo ha chiesto lei così come fa con tutti , decine di volte al giorno, nei suoi lunghi vagabondaggi per Chiavari. E Nada le ha risposto. Luciana Signorini viene lungamente interrogata negli uffici della polizia di Chiavari. In casa sua viene anche sequestrato un asciugamano che presenta delle macchie di sangue. Oscar Signorini dice di essersi tagliato radendosi.

Sua moglie Egle e la figlia minore, fanno cenno invece a un’operazione cui è stato sottoposto il loro cagnolino. Due versioni che stridono e accendono la fiammella del sospetto. Ma dal lungo interrogatorio e dai riscontri forniti nei mesi successivi dalle analisi disposte sull’asciugamano sequestrato, non uscirà nulla di concreto. Oltretutto la polizia stabilisce subito che la mattina del delitto Luciana Signorini è stata vista alle 9,10 in piazza Matteotti da Mario, detto Lallo, un suo vecchio fidanzato, che fa il barista in quella piazza e che la donna “perseguita” da tempo pregandolo di tornare con lei. Troppo distante da via Marsala per aver commesso il delitto? Alle 8,35, dunque, Nada entra in ufficio. E’ in anticipo sul suo orario di lavoro ma anche questo non è infrequente. Almeno così dichiarano sia Marco Soracco sia sua madre agli inquirenti. Gli accertamenti tecnici sul computer stabiliranno che qualche minuto prima delle nove Nada mette in funzione la stampante. Sono i tabulati di due clienti. Da quel momento sulla ricostruzione della polizia cala il buio.

Un buco di dieci minuti sino all’entrata in scena di Soracco, alle 9,10. Dieci minuti nei quali l’assassino è entrato in azione facendo scempio della sua vittima. L’autopsia disposta dal sostituto procuratore Filippo Gebbia ed eseguita all’istituto di medicina legale di Genova dai professori Marcello Canale e Andrea Giannelli il 9 maggio, tre giorni dopo il delitto, stabilirà che Nada è stata raggiunta da quindici colpi violentissimi sferrati da un “oggetto lungo e pesante”: un tubo o un bastone con sulla punta una piccola protuberanza che ha lasciato sul corpo delle vittima dei segni profondi: come dei timbri. Fra le ferite, le più gravi, quelle che hanno portato alla morte, sono quelle inferte alla testa che hanno sfondato il cranio in cinque punti. Il primo colpo è stato sferrato con buona probabilità sulla parte sinistra del volto, all’improvviso. Nada è caduta a terra priva di sensi e, cadendo, ha colpito uno spigolo della scrivania: ecco il perché di quella chiazza di sangue. Il suo assassino ha continuato a massacrarla di colpi quando era a terra come dimostra la ferita riscontrata nella zona pubica. Secondo questa ricostruzione, Nada non si sarebbe difesa. Non ne avrebbe avuto il tempo. Però. C’è un però.

Fra i pochi elementi che gli uomini agli ordini del commissario Pasquale Zazzaro e del capo della squadra omicidi di Genova Giuseppe Gonan riescono a trovare nello studio del delitto, c’è un bottone. Un piccolo bottone in metallo, tipo quelli dei giubbotti jeans. Non appartiene a Nada né, dice Soracco, a qualche suo indumento. Quel bottone fa intravedere l’ombra di una reazione da parte della ragazza. Forse Nada si è gettata sul suo aggressore nel tentativo di arginarne la furia. Sul suo braccio sinistro, in effetti, c’è una profonda ecchimosi e una leggera lacerazione. Forse, prima di stramazzare a terra, lei si è appesa al giubbotto o ai calzoni del suo assassino facendone saltare appunto un bottone. Gli investigatori si afferrano a loro volta a questa pista con la forza della disperazione. In mano hanno poco altro. Un anellino, trovato nello studio, viene mostrato ai genitori di Nada che escludono sia della figlia. Un oggetto di poco valore che apre una nuova pista: quella di un delitto al femminile. Ad uccidere potrebbe essere stata una donna spinta dall’odio o dalla gelosia. Anche questa pista viene battuta con furia. Ma la verità è che gli investigatori devono fare i conti con un dato oggettivo che gioca loro contro: gran parte delle tracce del delitto sono state cancellate nella fase dei soccorsi e la stessa arma non è stata trovata. Mai, almeno sinora. Forse l’assassino l’ha gettata via uscendo dal palazzo e, ironia della sorte, i cassonetti della spazzatura in via Marsala sono stati svuotati prima che quanto accaduto a Nada Cella assumesse i contorni del delitto, prima che qualcuno pensasse a transennare la zona. Per di più nessuno nel palazzo sembra aver sentito o visto nulla. Tutti gli inquilini dello stabile vengono interrogati più volte dalla polizia senza che esca alcun elemento che possa finalmente dare una svolta alle indagini. Chi ha ucciso Nada Cella deve essersi per forza sporcato di sangue: ce n’è molto nell’ufficio della ragazza. Come ha fatto allora l’assassino a lasciare il palazzo e ad allontanarsi da via Marsala senza che nessuno lo abbia notato? E’ possibile, certo. Ma è sensato anche avanzare un’altra ipotesi. E se da quel palazzo il killer di Nada Cella non fosse mai uscito?

In questo quadro il primo e sostanzialmente unico sospettato diviene Marco Soracco. Il trentaquattrenne commercialista quello stesso lunedì viene interrogato per sedici ore. Dalle 10,30 del mattino alle 2,30 della notte seguente. La sua versione dei fatti, il ritrovamento del corpo agonizzante di Nada Cella, i suoi contatti con i clienti, vengono vagliati e rivagliati mille volte, cercando riscontri e verifiche. Soracco ripete sempre la stessa versione, “come se leggesse un verbale di polizia”, si lasceranno sfuggire gli investigatori nei giorni successivi. E sono forse proprio il distacco e la freddezza con i quali il giovane commercialista ricorda fatti e particolari che suscitano e rinvigoriscono i sospetti. E non solo quelli della polizia. L’opinione pubblica si aspetta che da un momento all’altro venga arrestato e quando, il 10 maggio, a quattro giorni dal delitto, il suo nome viene iscritto nel registro degli indagati nessuno si stupisce. Sul suo conto non ci sono e non si troveranno prove, non ci sono indizi né incongruenze vengono rilevate nella sua versione dei fatti. Ci sono, per così dire, “stranezze”. Risulta ad esempio assai strano per tutti che, scoperto il corpo della sua giovane impiegata in un lago di sangue, non abbia sentito prima di tutto il moto di soccorrerla e sia invece andato a chiedere aiuto alla madre. E sembra anche strano, quantomeno il giorno dopo la scoperta del delitto, che sia lui sia la madre, davanti al massacro compiuto dall’assassino sul corpo di Nada, abbiano potuto pensare che la ragazza fosse stata colta da ictus. Strano, infine e anche questo a posteriori, che Marisa Bacchioni nelle fasi concitate dei soccorsi non abbia trovato niente altro di meglio da fare che lavare il sangue caduto sulle scale e davanti allo studio. E poi c’è lui, Marco Soracco.

Soracco ha 34 anni, è un uomo solitario, con pochi amici e pochi interessi al di fuori del lavoro. Figlio unico, da qualche anno orfano del padre; un padre che era ex direttore del dazio e responsabile dell’ufficio anagrafe di Chiavari, legato alla Dc e fratello del segretario particolare dell’onorevole Lucifredi. Anche Marco Soracco è legato alla Dc chiavarese per la quale ha corso alle ultime elezioni, quelle del ’94, riscuotendo un buon successo personale ma soccombendo, con tutto il suo partito, davanti alla travolgente scalata al potere della Lega Nord. Nella sua vita privata c’è poco da indagare. Non ha fidanzata, ha pochi amici, frequenta una scuola di ballo liscio all’ex cinema Odeon. La domenica, vigilia del delitto, ha trascorso la serata in pizzeria proprio con alcuni ragazzi e ragazze conosciuti in quella scuola. Frequenta anche la sezione del Cai chiavarese con la quale fa qualche gita. Nella sua casa di campagna, a Mezzanego, pochi chilometri nell’entroterra di Chiavari, nel corso di una perquisizione disposta il giorno dopo il delitto, la polizia trova un’imbracatura da montagna. Il sospetto prende la forma di una piccozza. Potrebbe essere l’arma del delitto? L’autopsia lo escluderà, ma ancor prima Soracco spiega che non ne possiede e non ne ha mai posseduta una e che la stessa imbracatura l’ha avuta in prestito da un amico per una gita in ferrata prevista per il 25 aprile e poi rimandata per il cattivo tempo. Tutto verificato, tutto confermato. Interrogatorio dopo interrogatorio Soracco continua a ripetere le stesse cose, quasi con le stesse parole senza mai perdere la calma. A chi gli fa notare che quel suo modo tranquillo e distaccato di affrontare la vicenda risulta sospetto, replica che in realtà è solo apparenza, e che lui sta soffrendo, e molto, per quanto è accaduto Nada e per quanto sta accadendo a lui e alla famiglia di lei. Deborah, una delle amiche del cuore di Nada, racconta agli investigatori che Nada le aveva confidato di aver rifiutato un invito a cena dal suo datore di lavoro. «“Ho declinato l’invito”, mi ha detto Nada», sono le parole della ragazza.

Gli investigatori stringono il cerchio ma Soracco non perde la calma. Spiega, ricorda, conferma o smentisce. Sempre con calma e offrendo riscontri. Anche quando un suo collega, Paolo Bertuccio, il 27 maggio, dopo giorni di inquietudine e indecisioni, racconta alla polizia di un incontro avuto in un bar con il suo giovane collega la sera del 24 aprile, dieci giorni prima del delitto. «Soracco mi confidò: “fra un po’ in ufficio ci sarà la botta. Ne sentirai parlare, se ne occuperanno anche i giornali. E Nada, se ne andrà, ma poi la verità verrà a galla», rivela agli inquirenti. Il commercialista nega di aver usato quella terminologia o di sapere che Nada volesse andarsene. La polizia verifica anche questa pista ma non approda a nulla. In un solo caso Soracco perde la pazienza e minaccia querele.

Nel dicembre del 1997 quando il “caso Cella” approda in televisione a “Chi l’ha visto?” e lui vede, nella ricostruzione dei fatti e negli interventi dei familiari di Nada, l’intento “doloso di accreditare nell’opinione pubblica ulteriori sospetti sul mio conto”. Oltretutto, il 18 luglio di quello stesso anno, dopo due rinvii, la procura di Chiavari aveva definitivamente archiviato la sua posizione in merito al delitto di Nada Cella. Marco Soracco esce in questo modo definitivamente di scena.

Da allora dell’assassinio di Nada Cella, la cronaca nera si è occupata a più riprese. Ogni volta che uno spiraglio di luce sembrava aiutare a svelarne il mistero. Nel novembre del 1999, ad esempio, con l’arresto di Sergio Truglio, un muratore trentacinquenne reo confesso dell’assassinio di una prostituta, Giordana Matic, avvenuto sulle alture di Uscio. Si scopre che Truglio da giovane andava in vacanza ad Alpepiana e che frequentava e conosceva Nada. E’ Silvana Smaniotto a segnalarlo alla polizia. Che mette alle strette Truglio che nega disperatamente ogni suo coinvolgimento nel delitto. E gli esami sul Dna gli danno ragione. Accade ancora nel febbraio del 2004 quando due fratelli albanesi, indagati a Genova nell’inchiesta Kanun, per associazione mafiosa e sfruttamento della prostituzione, ricevono un avviso di garanzia per il delitto Cella. Il collegamento è dato dal fatto che entrambi, all’epoca, vivevano a Chiavari, in via Piacenza 351, la palazzina dove abitavano Nada e la madre. I due fratelli, uno dei quali era sposato e padre di due bambini piccoli, erano già stati interrogati all’indomani del delitto senza che sul loro conto saltasse fuori alcunché.

L’indagine su questo fronte è ancora formalmente aperta ma le prime a dubitare che porti a qualche risultato sono proprio Silvana Smaniotto e Daniela Cella. La madre e la sorella di Nada sono rimaste sole a lottare perché si continui a indagare, perché il “caso Cella” non finisca definitivamente archiviato fra quelli insoluti. Sono rimaste sole da quando, il 30 luglio del 1999, Bruno Cella è morto in un incidente stradale. E’ uscito di strada, qualche curva prima di Alpepiana finendo in un dirupo. Aveva 61 anni. L’autopsia ha stabilito che a fargli perdere il controllo dell’auto è stato un infarto. Ma ad Alpepiana nessuno ci crede. Tutti sanno che ad uccidere Bruno Cella è stato il dolore. Il dolore di aver perso Nada e di non essere riuscito, in tanti anni, a trovare chi è stato. Chi è stato a uccidere la sua bambina.

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