Mai dire “non hai le palle”: per la Cassazione è “reato di ingiuria”

Pubblicato il 31 Luglio 2012 - 20:45 OLTRE 6 MESI FA
(LaPresse)

ROMA – Dire “non hai le palle” è reato di ingiuria. Non importa se il linguaggio moderno è andato verso la “volgarizzazione delle modalità espressive”, usare questa frase è reato per la Cassazione. il problema non sarebbe tanto la messa in discussione della virilità del proprio avversario, quanto il metterne in dubbio la determinazione e la coerenze, che per la Cassazione sono “virtù che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile”.

La Cassazione ha depositato la sentenza 30719 il31 luglio, sentenza che si riferisce al ricorso di un avvocato potentino, Vittorio G., contro il cugino Alberto G., giudice di pace a Taranto, che in tribunale durante una lite gli aveva appunto rivolto l’ingiuria: “tu non hai le palle”.

La sentenza conferma così quella dei magistrati che in primo grado avevano ritenuto quelle parole offensive. Il vedertto di primo grado fu però ribaltato in appello, con un verdetto di innocenza: per il Tribunale di Potenza, con sentenza del 24 gennaio 2011, l’accusa di ingiuria ”non sussisteva” perché ”mancava una effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato” in quanto proferita ”nell’ambito di una contesa familiare”.

Alberto fu assolto. Contro il suo proscioglimento ha protestato il legale di Vittorio sostenendo, in Cassazione, che è lecito dire ”non rompere le palle, equivalente all’invito a non intralciare l’opera di qualcuno” mentre lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire ”non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini”. Una valenza offensiva che secondo l’avvocato della parte lesa è ancora più grave ”se pronunciata in ambiente di lavoro”.

Con questa linea ‘colpevolista’ ha pienamente concordato la Quinta sezione penale della Suprema Corte affermando che ”a parte la volgarità dei termini utilizzati, l’espressione ha una indubbia valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilità del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile”.

Inoltre, aggiunge la Cassazione, ”la frase fu pronunciata in un contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce alta ed era udibile anche da terze persone”. ”In tali circostanze – osserva ancora l’Alta Corte – il pericolo di lesione della reputazione di Vittorio G. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base di una pretesa ‘evoluzione’ del linguaggio verso la volgarizzazione delle modalità espressive”. Ora sarà un giudice civile a stabilire se, e per quale ammontare, dovrà essere risarcito il cugino offeso nelle ”virtù maschili”.