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Papa Francesco: “Dopo Lampedusa ho capito che dovevo viaggiare”

di Gianluca Pace |8 Gennaio 2017 7:53

Papa Francesco (foto Ansa)

ROMA – “Il dramma di Lampedusa – confessa, intervistato dalla Stampa, Papa Francesco – mi ha fatto sentire il dovere di mettermi in viaggio, era importante andare”.

“Non mi piaceva spostarmi, ora so che devo andare, è faticoso, ma per quelle testimonianze, quei sorrisi, ne vale la pena. E spiega: “Visitare le Chiese, incoraggiare i semi di speranza”. Nell’Ue, continua Papa Francesco, “finora solo la Grecia, coi profughi a Lesbos: ho preferito privilegiare chi ha bisogno d’aiuto”.

Ha cambiato qualcosa nell’agenda già consolidata dei viaggi papali?

«Non molto. Ho cercato, ad esempio, di eliminare del tutto i pranzi di rappresentanza. È naturale che sia le autorità istituzionali del Paese visitato, sia i confratelli vescovi, desiderino festeggiare l’ospite che arriva. Non ho nulla contro lo stare a tavola in compagnia. Ricordiamoci che il Vangelo è pieno di racconti e di testimonianze che descrivono proprio circostanze come questa: il primo miracolo di Gesù avviene durante un banchetto di nozze (…). Ma se l’agenda del viaggio, come accade quasi sempre, è già pienissima di appuntamenti, preferisco mangiare in modo semplice e in poco tempo».

 

Quali sentimenti prova di fronte all’entusiasmo della gente che l’aspetta per ore per vederla passare sulle strade?

«Il primo sentimento è quello di chi sa che ci sono gli “Osanna!” ma come leggiamo nel Vangelo, possono arrivare anche i “Crucifige!”. Un secondo sentimento lo traggo da un episodio che ho letto da qualche parte. Si tratta di una frase detta dall’allora cardinale Albino Luciani a proposito degli applausi che un gruppo di chierichetti accogliendolo gli aveva tributato. Disse più o meno così: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?”. Ecco il Papa deve aver coscienza del fatto che lui “porta” Gesù, testimonia Gesù e la sua vicinanza, prossimità e tenerezza a tutte le creature, in modo speciale quelle che soffrono. Per questo qualche volta a chi grida “viva il Papa” ho chiesto invece di gridare “Viva Gesù!”. Ci sono poi espressioni bellissime a proposito della paternità in uno dei dialoghi del beato Paolo VI con Jean Guitton. Papa Montini confidava al filosofo francese: “Credo che di tutte le dignità di un Papa, la più invidiabile sia la paternità. La paternità è un sentimento che invade lo spirito e il cuore, che ci accompagna a ogni ora del giorno, che non può diminuire, ma che si accresce, perché cresce il numero dei figli. È un sentimento che non affatica, che non stanca, che riposa da ogni stanchezza. Mai, neanche un momento, mi sono sentito stanco, quando ho alzato la mano per benedire. No, io mi stancherò mai di benedire o di perdonare”. Paolo VI diceva questo subito dopo essere tornato dall’India. Credo che siano parole che spiegano il perché i Papi nell’epoca contemporanea, abbiano deciso di viaggiare».

 

Ricordi dei viaggi che le sono rimasti indelebili nella memoria?

«L’entusiasmo dei giovani a Rio de Janeiro, che mi tiravano di tutto nella papamobile. E poi, sempre a Rio, quel bambino che riuscendo a intrufolarsi ha salito le scale di corsa e mi ha abbracciato. Ricordo la gente accorsa al santuario di Madhu, nel nord dello Sri Lanka dove ad accogliermi ho trovato, oltre ai cristiani, anche i musulmani e gli indù, un luogo dove i pellegrini arrivano come membri di un’unica famiglia. O l’accoglienza nelle Filippine. Ho ancora davanti agli occhi il gesto di quei papà che alzavano i loro bambini, perché li benedicessi, e mi sembrava che volessero dire: questo è il mio tesoro, il mio futuro, il mio amore, per lui vale la pena di lavorare e di fare sacrifici. E c’erano anche tanti bambini disabili, e i loro genitori non nascondevano il loro figlio, me lo porgevano perché lo benedicessi affermando con i loro gesti: questo è il mio bambino, è così, ma è mio figlio. Gesti nati dal cuore. Ancora ricordo le tante persone che mi hanno accolto a Tacloban, sempre nelle Filippine. Pioveva tanto quel giorno. Dovevo celebrare la messa per ricordare le migliaia di morti provocati dal Tifone Hayan, e il maltempo per poco non faceva saltare il viaggio. Ma non potevo non andare: mi avevano tanto colpito le notizie su quel tifone che aveva devastato quella zona nel novembre 2013. Pioveva e io indossavo un impermeabile giallo sopra le vesti per la messa che abbiamo celebrato lì, come si poteva, in un piccolo palco frustrato dal vento. Dopo la messa un cerimoniere mi ha confidato che era rimasto colpito e anche edificato perché i ministranti, nonostante la pioggia, mai avevano mai perso il sorriso. C’era il sorriso anche sul volto dei giovani, dei papà e delle mamme. Una gioia vera, nonostante i dolori e la sofferenza di chi ha perso la casa e qualcuno dei suoi cari».

 

Dopo un viaggio, che cosa accade: come ricorda le persone incontrate?

«Le porto nel mio cuore, prego per loro, prego per le situazioni dolorose e difficili con le quali sono venuto in contatto. Prego perché si riducano le disuguaglianze che ho visto».

 

Tanti viaggi nel mondo, quasi nessuno nei Paesi dell’Unione Europea. Perché?

«L’unico Paese dell’Unione Europea che ho visitato è stata la Grecia, con il viaggio di appena cinque ore a Lesbos per incontrare e confortare i profughi, insieme con il miei fratelli Bartolomeo di Costantinopoli e Hyeronimos di Atene (…). Sono poi andato al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa a Strasburgo, ma quella è stata piuttosto una visita a un’istituzione, non a un Paese. Ma ho comunque visitato altri Paesi che sono europei pur non facendo parte della Unione: l’Albania e la Bosnia Erzegovina. Ho preferito privilegiare quei Paesi nei quali posso dare un piccolo aiuto, incoraggiare chi nonostante le difficoltà e i conflitti lavora per la pace e per l’unità. Paesi che sono, o che sono stati, in gravi difficoltà. Questo non significa non avere attenzione per l’Europa che incoraggio come posso a riscoprire e a mettere in pratica le sue radici più autentiche, i suoi valori. Sono convinto che non saranno le burocrazie o gli strumenti dell’alta finanza a salvarci dalla crisi attuale e a risolvere il problema dell’immigrazione, che per i Paesi dell’Europa è la maggiore emergenza dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».

 

Tra le novità dei viaggi papali c’è, immagino, un protocollo diverso riguardante la sicurezza. È così?

«Io sono grato ai gendarmi e alle guardie svizzere per essersi adattati al mio stile. Non riesco a muovermi nelle macchine blindate o nella papamobile con i vetri antiproiettile chiusi. Comprendo benissimo le esigenze di sicurezza e sono grato a quanti, con dedizione e molta, davvero molta fatica durante i viaggi mi sono vicini e vigilano. Però un vescovo è un pastore, un padre, non ci possono essere troppe barriere tra lui e la gente. Per questo motivo ho detto fin dall’inizio che avrei viaggiato soltanto se mi fosse stato sempre possibile il contatto con le persone. C’era apprensione durante il primo viaggio a Rio de Janeiro, ma ho percorso tante volte il lungomare di Copacabana con la papamobile aperta, salutando i giovani, fermandomi con loro, abbracciarli. Non c’è stato un incidente in tutta Rio de Janeiro, in quei giorni. Bisogna fidarsi e affidarsi. Sono consapevole dei rischi che si possono correre. Devo dire che, forse sarò incosciente, non ho timori per la mia persona. Ma sono invece sempre preoccupato per l’incolumità di chi viaggia con me e soprattutto della gente che incontro nei vari Paesi. Quello che mi impensierisce sono i rischi concreti, le minacce per chi viene e partecipa a una celebrazione o a un incontro. C’è sempre il pericolo di un gesto inconsulto da parte di qualche pazzo. Ma c’è sempre il Signore».

 

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