Paradisi fiscali: maxi fuga di capitali in Svizzera e Lussemburgo, 14 denunciati tra cui un scerdote

Enorme giro di evasione fiscale internazionale nei “paradisi fiscali”della Svizzera e del Lussemburgo: tra gli evasori una famosa clinica della Capitale, imprenditori, antiquari, agenzie di viaggi e anche un sacerdote. Coinvolti  funzionari di alcuni istituti di credito romani.  Il maxi traffico di valuta è stato scoperto dalla guardia di finanza del Comando Provinciale di Roma che ha anche sequestrato 3 milioni di euro riciclati e denunciato 14 persone per riciclaggio ed evasione fiscale internazionale.

Gli uomini del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma hanno scoperto vari sistemi attraverso i quali si riusciva ad effettuare l’evasione che faceva capo ai funzionari di alcune banche. Tra i più gettonati, nonostante la grande complessità del sistema, il ricorso a società fantasma nei” paradisi fiscali”, costituite tramite fiduciarie in Svizzera e Lussemburgo, che venivano utilizzate sia per l’emissione di fatture false (relative a finte consulenze) allo scopo di trasferire all’estero denaro solo formalmente giustificato dalle fatture, sia per realizzare, a favore dei clienti più ricchi, tra cui anche i titolari di una nota clinica privata di Roma, un sistema complesso di “cartolarizzazione” dei crediti.

In pratica l’imprenditore italiano che voleva portare “fondi neri”‘ all’estero cedeva ad una società di cartolarizzazione, che era naturalmente d’accordo, un ingente portafoglio di crediti nei confronti di clienti sicuramente solvibili, per esempio enti pubblici. I crediti venivano molto svalutati e l’azienda italiana venditrice registrava in contabilità la perdita che seguiva alla cessione, riducendo i ricavi e quindi l’utile dell’esercizio su cui pagare le tasse. L’azienda di cartolarizzazione, a sua volta, cedeva il credito ad una fiduciaria svizzera o lussemburghese ad un prezzo leggermente più alto e ne otteneva un guadagno minimo.

A questo punto la fiduciaria cartolarizzava il credito emettendo obbligazioni che venivano tutte acquistate da una società “fasulla”, di solito intestata a professionisti esteri, ma riconducibile di fatto alla prima azienda italiana venditrice del portafoglio. E infine l’ultimo passaggio, quello decisivo: la società fasulla era posta in liquidazione e i fondi venivano trasferiti in contanti su un nuovo conto corrente rigorosamente “cifrato”, di solito intestato ad un’altra falsa società, ma a disposizione dell’azienda italiana che in questo modo poteva godersi il suo “nero”.

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