ROMA – Dopo 50 giorni la petroliera Savina Caylyn, catturata dai pirati somali nell’oceano Indiano lo scorso 8 febbraio, rompe il silenzio. Il comandante Giuseppe Lubrano Lavadera ha chiamato lunedì scorso il Corriere della Sera ed è stato messo in conferenza con la moglie Nunzia Nappa. Il giornalista Massimo Alberizzi ha riportato le parole del capitano: “Mangiamo un pugno di riso al giorno e qualche volta dei fagioli. L’acqua scarseggia e non ci laviamo da tre mesi. Men che meno laviamo le mutande. I negoziati tra la società armatrice e i pirati sono interrotti. Siamo disperati, fate qualcosa. Tutti ci hanno abbandonato”.
Le foto choc apparse ieri su il Mattino, e risalenti al 9 giugno, sono preoccupanti e descrivono lo stato di abbandono degli ostaggi: un abbandono fisico, in condizioni di vita pessime, ed un abbandono psicologico, nel vedere negato il pagamento del riscatto che li riporti a casa al più presto e il sopito stato che nulla fa per rimpatriare i 5 italiani della ciurma ormai lontani da casa da oltre 6 mesi. I pirati somali la loro parte sembrano averla già fatta: il riscatto richiesto è stato abbassato da 20 milioni di dollari a 14 milioni, ma non tratteranno più con l’uomo della Fratelli D’Amato, compagnia proprietaria della Savina Caylyn, che ha offerto loro 7,5 milioni ed al rifiuto dei pirati ha interrotto le contrattazioni ed ora “i pirati non vogliono avere più niente a che fare con lui. Dicono che li ha presi in giro. Non trattano più sui soldi: 14 milioni. Si può solo stabilire dove e come consegnarli”, ha spiegato un somalo a bordo che fa da interprete.
L’intento degli armatori è chiaro, vogliono abbassare il prezzo del riscatto, e lo fanno aspettato che siano i pirati a cercare un contatto per contrattare. D’altronde la nave è assicurata per 150 milioni di euro, sebbene non sia coperta per eventuali danni provocati da attacchi di pirati. Ma la vita degli uomini a bordo non è affatto assicurata e le condizioni in cui versano da mesi logora non solo il fisico, ma l’animo, e il comandante ha anche altre preoccupazioni: “Stanno mettendo a dura prova la tenuta dell’unica ancora – ha spiegato -. A poco più di un miglio di distanza ci sono delle secche. Se dovessimo andare alla deriva rischieremmo di incagliarci e di rompere le stive. Ottantaseimila tonnellate di petrolio greggio potrebbero riversarsi nell’Oceano Indiano con conseguenze inimmaginabili sull’ecologia della zona”.
“Ci siamo rivolti a tutti. Dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a quello del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ora ci rivolgiamo ai giornali. Ci hanno detto di non parlare con i giornalisti perché avremmo reso le cose più difficili. Certo sarebbe stato più complicato abbassare il prezzo da pagare. Ma qui ci sono in gioco le nostre vite, mentre loro pensano al denaro. Questi non mollano, se non vengono pagati 14 milioni di dollari. Sono già scesi di sei e ritengono di aver già fatto abbastanza. Se ritornano alla richiesta iniziale di 20 milioni siamo tutti incastrati. Noi vogliamo tornare a casa al più presto”. Lubrano è chiaro nello spiegare la condizione delicata, l’insofferenza, la paura del non sapere se e quanto torneranno a casa, e pesa quel girare la testa di chi rappresenta lo stato e sembra aver dimenticato quei 5 italiani nell’oceano Indiano.
Ma gli ostaggi italiani della Savina Caylyn non sono gli unici ad agognare il ritorno a casa. Anche la Rosalia D’amato, motonave della Perseveranza navigazione, è stata catturata lo scorso 21 aprile al largo delle coste somale. Ma i familiari dell’equipaggio non parlano con i giornalisti al momento: “eseguiamo gli ordini, l’armatore e il ministero degli Esteri ci hanno detto di non parlare con i giornalisti”. E attendono. Attendono fino al momento in cui il senso di abbandono si impadronirà di loro, costretti a casa ad aspettare i propri cari, o almeno quelle foto choc o telefonate che diano la speranza di riabbracciarli ancora vivi.
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