Per Raniero Busco l’incubo è finito. L’assassino di Simonetta Cesaroni, per la Giustizia, non è lui.
E il mistero della morte di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate, il 7 agosto 1990, resta aperto: quattro macchie di sangue, quattro strisciate su una porta, quasi l’impronta di una mano.
Sono passati 24 anni. Da lì, da quelle strisciate di sangue e da quella quasi impronta deve partire la caccia all’omicida dopo che la sentenza della prima Corte di Appello di Roma, ha assolto Raniero Busco dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, il cui dispositivo era stato pubblicato venerdì 27 aprile 2012, è da oggi diventata definitiva perché la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura.
Il Procuratore Generale della Cassazione Francesco Salzano, aveva tentato di smontarne le motivazioni sostenendo che la sentenza sottovalutava gli indizi a carico dell’imputato, in particolare “lo stato di tensione” all’interno del rapporto tra Raniero e Simonetta.
Inoltre, sempre per Salzano, la maxi-perizia richiesta dai giudici d’Appello, non aveva risposto al quesito fondamentale, ovvero quello di stabilire la compatibilità o meno della dentatura di Busco con l’escoriazione riscontrata sul capezzolo della vittima.
In realtà Salzano ha tentato di mettere in dubbio, non tanto la competenza di Corrado Cipolla D’Abruzzo – il patologo aveva escluso che la piccola lesione in prossimità del capezzolo potesse essere stata provocata da un morso – ma la sua esperienza forense. Come se le capacità non contassero, come se quel che accade in un processo, fosse davvero altra cosa rispetto all’evidenza dei fatti.
Ora che il calvario dell’ex fidanzato è finito resta da capire se l’assassino di Simonetta Cesaroni verrà mai inchiodato alle sue responsabilità.
Il giorno della sentenza di assoluzione in Appello, insieme con la collega de Il Messaggero Cristiana Mangani, chiedemmo all’avvocato di parte civile Massimo Lauro: “Qual è stato l’elemento fondamentale che ha fatto ribaltare la sentenza di primo grado?”
“È stato il sangue di gruppo A”, ci rispose prima di allontanarsi.
Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1990, dopo la scoperta del corpo di Simonetta in una stanza degli uffici romani degli Ostelli della Gioventù, Antonello Barone, fidanzato ed attuale compagno di Paola Cesaroni, la sorella della vittima, notò quattro imbrattamenti di sangue sul lato interno della porta. All’epoca dei fatti li definì “ancora vividi”.
Una strisciata lasciata là da qualcuno che, evidentemente, si era ferito, perché quella strisciata “fresca” risultò essere di gruppo A, un gruppo diverso sia da quello di Raniero, sia da quello di Simonetta.
Sembra assurdo dirlo nell’epoca dei sofisticati esami del DNA, eppure se si vuole risolvere davvero il caso di via Poma, occorre ripartire da quelle quattro strisciate di sangue, quasi l’impronta parziale di una mano, che a poche ore dall’omicidio parevano ancora vivide.
Igor Patruno ha seguito l’omicidio di via Poma fin dall’inizio e ha pubblicato due libri sull’argomento: “La ragazza con l’ombrellino rosa” e “Via Poma”.
I commenti sono chiusi.