ROMA – Pompei e 200 milioni pronti e caldi per il suo restauro lasciati cadere con spregio e per non turbare i giochi degli appalti dalla burocrazia ministeriale italiana che dovebbe provvedere alla tutela dei nostri beni culturali. La vicenda, che dà i brividi e rende ancor più ridicola la twitterata indignata del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini è stata raccontata da Mattia Feltri sulla Stampa di Torino.
“All’inizio del 2011 il più grande consorzio francese di multinazionali, Epadesa della Défense, offrì circa duecento milioni di euro al restauro di Pompei e dopo un anno e mezzo di tribolazioni non se ne fece nulla.
La storia si affacciò sui nostri quotidiani e come arrivò sparì, fra stupore e un po’ di indignazione.
È una vicenda nota, nel mondo della cultura, e controversa [el racconto di Mattia Feltri come nelle successive parole polemiche di Riccardo Villari, ex sottosegretario ai Beni culturali, ci sono stati problemi “politici” anche da parte francese] tranne che nelle origini.
Nel 2011, Patrizia Nitti, direttrice italo-francese del Musée Maillol a Parigi, Rue de Grenelle, specializzato in cultura italiana, sta allestendo una mostra su Pompei.
È lì che le viene in mente di chiamare una cara amica, Joëlle Ceccaldi-Raynauld, presidente del consiglio di amministrazione di Epadesa e parlamentare. Le avanza una proposta: avvalersi della legge francese sulla defiscalizzazione (pro mecenatismo) e contribuire alla cura del più grande sito archeologico del mondo.
Si tratta – detta in maniera grossolana chiara – di girare parte dell’imponibile dall’erario a Pompei. Joëlle chiede qualche giorno.
E settantadue ore dopo dice sì, sono tutti entusiasti. In particolare lo è Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa. Oggi Patrizia Nitti ci dà il preambolo: «Il presidente di Epadesa qui vale quanto un ministro. Quando si muove, gli srotolano il tappeto rosso».
Stavolta non succede. È Ceccaldi-Raynauld che deve andare a Roma, al ministero dei Beni culturali. Il ministro è Giancarlo Galan, che ha appena preso il posto di Sandro Bondi. Ceccaldi-Raynauld (accompagnata da Patrizia Nitti e dalla senatrice del Pdl, Diana De Feo, ambasciatrice in Italia dell’intervento) si incontra con Mario Resca, ex McDonald’s, direttore generale del ministero, e illustra il progetto: venti milioni di euro all’anno, a crescere, per dieci anni. Nemmeno il Superenalotto.
«Conosco Pompei, ci ho lavorato quattro anni. Quattro anni piuttosto complicati. Ero autrice e relatrice del progetto, anche per via della lingua», racconta oggi Patrizia Nitti.
Dice che da subito ci furono «difficoltà di comprensione. Non riuscivo a rendere la portata di Epadesa. Sentivo della diffidenza». Forse contribuirono le lotte di competenze, le gelosie e gli interessi che da sempre agitano il Mibac.
I contatti proseguono ma così macchinosi che Epadesa decide di coinvolgere l’Unesco: nel giugno del 2011 viene informata del piano di finanziamento la direttrice generale Irina Bokova.
E alla fine di novembre, nella sede parigina dell’Unesco, davanti al direttore per la Cultura, Francesco Bandarin, i rappresentanti di Epadesa e del ministero devono firmare il protocollo. Da pochi giorni a Palazzo Chigi c’è Mario Monti, al Mibac è andato Lorenzo Ornaghi. Ma a Parigi, da Roma, non arriva nessuno.
L’altro atto ufficiale è di quattro mesi più tardi. Joëlle Ceccaldi-Raynauld scrive una lettera a Ornaghi e gli chiede una moratoria. «Mi sembra che nel nostro paese, il periodo attuale non è il migliore per intraprendere degli interventi di sponsorizzazione», scrive fra l’altro.
Sta per compiersi la sfida dell’Eliseo fra Nicholas Sarkozy e François Hollande. Dovesse vincere Hollande, come accadrà, Epadesa che è statale sarà sottoposta a spoil system e, in scadenza di mandato, non ci si espone per duecento milioni di euro.
Tutto qui? No, c’è ancora qualcosa. Nel giugno del 2012, intervistato dal Mattino, l’ex sottosegretario di Galan, Riccardo Villari, dice: «L’Epadesa aveva offerto duecento milioni per restauri all’interno del sito, ma voleva la certezza che a fare i lavori fossero le imprese del consorzio senza passare per alcuna gara d’appalto. Forse pensavano che con i quattro soldi che ci offrivano si sarebbero potute forzare regole che immaginavano evidentemente flessibili».
Notevole: i francesi a lezione di legalità dagli italiani. Un funzionario dell’Unesco cha chiede l’anonimato spiega: «Il consorzio, per paura della camorra, chiedeva di condividere le gare di appalto, di vietare i subappalti e un presidio di polizia sui cantieri. Non so quanto pesarono le richieste, ma pesarono senz’altro». Oggi Villari aggiunge: «Credo fossero soprattutto terrorizzati dalla burocrazia e dalle guerre infinite dentro il ministero». Fatto sta che i duecento milioni non sono più arrivati”.