PRATO – Rogo capannone dormitorio. Imputata cinese: “Su quei morti ci pagavo le tasse”. Al processo per il rogo del dicembre scorso nel capannone dormitorio dove erano stipati operai cinesi del tessile (morirono in 7) hanno fatto scalpore le parole dell’imprenditrice cinese Li Youlan: da imputata si è accollata le responsabilità ma non senza chiamare in causa anche i proprietari italiani del capannone e le autorità comunali, accusate di sapere tutto dei dormitori incriminati visto che dei tecnici vi avevano fatto un sopralluogo per calcolare le tasse sui rifiuti pagate dall’imprenditrice.
L’imprenditrice Li ha ricordato come i fratelli Giacomo e Massimo Pellegrini, proprietari del capannone per il quale ricevevano 2mila euro mensili d’affitto, fossero a conoscenza delle condizioni dello stabile (e infatti sono anch’essi già stati rinviati a giudizio per omicidio colposo). Ma che sopra la fabbrica fosse stato allestito un dormitorio fatto di loculi soprelevati di cartone e cartongesso come ricovero notturno per gli operai, lo sapevano anche le autorità comunali.
Li Youlan ha infatti menzionato di fronte ai giudici la visita di tecnici del Comune che hanno effettuato misurazioni per calcolare l’importo della tassa sui rifiuti. Una circostanza che apre scenari inquietanti sui rapporti tra cinesi e italiani con la complicità delle istituzioni. Tutti sapevano dei dormitori, dice Li, che ammette di aver cambiato ogni anno l’intestazione della ditta per sfuggire ai controlli sulla produzione. Ma sicurezza sul lavoro e condizioni di vita degli operai non riguardano solo la comunità cinese.
Sapevano tutto, dice l’imprenditrice. Del resto, non è un mistero in città che la linea della Procura della Repubblica, retta ora da Antonio Sangermano, ex pm milanese del processo Ruby-Berlusconi, punti a far luce su avventurieri e professionisti italiani senza scrupoli che in questi anni hanno guadagnato aiutando il pronto moda cinese a impiantare un modello di business in cui convivono la spregiudicatezza commerciale, l’esportazione sui mercati dell’Est Europa di capi etichettati made in Italy e operai trattati alla stregua di schiavi. (Dario Di Vico, Corriere della Sera)
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