Via Poma: il morso, l’alibi, il Dna. La nuova perizia fa sperare Busco

Un poliziotto mostra l'ufficio di via Poma

ROMA – Il movente, l’alibi, il dna, lo strofinaccio, il corpetto e il morso. Si possono riassumere così gli “assi” di Raniero Busco per il caso di via Poma. Busco è stato condannato in primo grado per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa a coltellate nel suo ufficio in un elegante palazzo di Roma nell’estate del 1990. Ma una nuova perizia, in previsione del processo d’appello, ha drasticamente cambiato la rilettura degli elementi che hanno portato alla condanna.

Il movente. La ricostruzione della procura vede un Raniero Busco assassino d’impeto. Quel pomeriggio d’estate sarebbe andato a trovare la fidanzata, avrebbe preteso un rapporto sessuale (erano soli in quell’appartamento), ma al rifiuto di lei si sarebbe scatenata la furia omicida. In realtà rileggendo le carte si scopre che Busco non sapeva nemmeno dove fosse via Poma 2. Quello infatti non era l’ufficio abituale di Simonetta. Inoltre non è un mistero che Busco non fosse innamorato di Simonetta e che anzi, soprattutto d’estate, voleva maggiore libertà da una ragazza che considerava anche un po’ asfissiante.

La nuova perizia ha spostato in avanti l’orario del delitto. Tra le 18 e le 19. Per quel pomeriggio Busco aveva un alibi, fornitogli da due vicine di casa che lo avevano visto, a Morena (zona distante da via Poma), aggiustare una vecchia Fiat Panda. La procura non credette alle donne che furono anzi condannate per falsa testimonianza. Ma l’orario del delitto spostato in avanti favorisce Busco: a quell’ora era per certo in viaggio per Fiumicino dove lavorava come meccanico e aveva un turno di notte.

Le tracce biologiche individuate sul corpetto di Simonetta identificano ”con certezza la presenza di almeno tre soggetti maschili”. Quanto ai due campioni prelevati sul reggiseno sono entrambi attribuibili a Busco. La presenza di tre soggetti di sesso maschile è stata individuata nel ”settimo campione prelevato dalla parte sinistra del corpetto”. In merito agli altri campioni sul corpetto o si tratta di tracce biologiche commiste o non attribuibili all’ imputato o attribuite a Busco anche se per alcune i consulenti ipotizzando che la traccia possa essere frutto di una contaminazione tra reperti.

Altra svolta sembra profilarsi per quanto riguarda il segno di un morso sul seno sinistro della vittima. I periti smontano una delle prove ”regine” del processo di primo grado: non si tratta di un morso. ”Le due minime lesioni escoriative seriate poste al quadrante supero-mediale della base d’impianto del capezzolo sinistro – scrivono -, non sono in grado di configurare alcun morso, oltretutto mancando l’evidente traccia di opponente, per cui restano di natura incerta”, per i periti ”potrebbe essere di tutto”. Secondo la perizia le lesioni potrebbero essere attribuite, tra l’altro, ”ad una unghiatura parziale per strizzamento tra due dita del capezzolo ove sul posto il contatto avvenne propriamente con il margine ungueale e dall’altra parte ebbe ad agire solo il polpastrello”. Gli esperti si pronunciano, poi, sulla posizione e sulla dinamica con cui il presunto morso sarebbe stato lasciato sul seno di Simonetta: una ricostruzione che appare ”inverosimile” e ”impossibile ad un essere umano”.

Quanto alla traccia di sangue individuata sul lato interno alla porta della stanza dove fu trovata morta Simonetta Cesaroni, ”è attribuibile ad un soggetto maschile di gruppo sanguigno A e di genotipo 1.1/4 al locus Dqalfa e quindi certamente non all’imputato Raniero Busco”. Anche le tracce di sangue trovato sul telefono della stanza teatro del delitto è dello stesso gruppo sanguigno e quindi ”non può essere attribuito né alla vittima né all’imputato”. Sullo specchio dell’ascensore dello stabile di via Poma furono trovate due tracce ematiche: una, secondo i periti, è di Simonetta, l’altra è ”attribuibile ad un soggetto di sesso maschile allo stato ignoto”. Per i consulenti, inoltre, il delitto sarebbe avvenuto più tardi di quanto si pensava finora: tra le 18 e le 19.

Infine, uno strofinaccio. Venne ritrovato, sciacquato e strizzato, in uno scantinato di via Poma. L’assassino aveva avuto il tempo di ripulire la scena del delitto, cercando di eliminare i 3 litri di sangue fuoriusciti dopo le 29 coltellate. Il Dna era quello di Simonetta. L’assassino se avesse avuto il tempo avrebbe verosimilmente portato via il cadavere, nel tentativo di allontanare i sospetti dal palazzo. La conseguenza è che il killer aveva una certa dimestichezza con lo stabile. Il suo proposito venne però bloccato: intorno alle 11 di sera a via Poma arrivò Paola Cesaroni, la sorella della vittima preoccupata per il clamoroso ritardo.

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