PALERMO – Kadga Shabbi, la ricercatrice universitaria libica fermata a dicembre a Palermo per istigazione a delinquere in materia di reati di terrorismo, torna in carcere. La Cassazione ha confermato la decisione dei giudici del Riesame contro il solo obbligo di dimora disposto dal giudice per le indagini preliminari. Con la decisione dei giudici romani per la Shabbi scatta nuovamente il carcere.
Kadga Shabbi era arrivata in Italia tre anni fa, ed era riuscita a vincere un dottorato di ricerca in Economia all’Università di Palermo. Le sue tradizioni, la sua fede e le sue convinzioni politiche, però, non le ha mai dimenticate. E, dietro la professione ufficiale di ricercatrice universitaria, sostengono gli inquirenti, avrebbe nascosto una rete di contatti con esponenti di organizzazioni terroristiche islamiche e foreign fighters e una fitta attività di propaganda in favore di Al Qaeda.
Contro di lei gli investigatori hanno prodotto intercettazioni telefoniche e i dati dei suoi pc. Troppo poco per il gip, che aveva ritenuto l’obbligo di dimora la misura cautelare più idonea.
L’inchiesta della Digos sulla Shabbi prende il via da alcune segnalazioni. La polizia comincia dal web mettendo in luce una intensa attività di propaganda svolta dalla ricercatrice in favore di una serie di organizzazioni terroristiche islamiche come Ansar Al Sharia Libya, tra le maggiori oppositrici del governo di Tobruk, e del suo leader Ben Hamid Wissam.
La donna, interessatissima alle vicende politiche del suo Paese, visitava continuamente le pagine Facebook di diversi gruppi legati all’estremismo islamico, condivideva sul suo profilo del social network materiale di propaganda della attività di organizzazioni terroristiche: volantini, ‘sermoni’ di incitamento alla violenza e scene di guerra. Dall’inchiesta sono emersi anche contatti con due foreign fighters che avevano combattuto in Libia ed erano poi tornati in Inghilterra e in Belgio.
La ricercatrice avrebbe anche tentato di fare avere un visto di studio al nipote, Abdulrazeq Fathi Al Shabbi, combattente ricercato dalle truppe dell’esercito regolare, vicino all’organizzazione Ansar al Sharia, formazione salafita collegata alla rete di jihadismo internazionale autrice, nel 2012, dell’attentato a Bengasi al Consolato americano.
Il ragazzo, che la zia definisce un martire, sarebbe morto in un conflitto a fuoco e in Italia non sarebbe mai giunto. In diverse intercettazioni la donna chiede vendetta per il nipote. La motivazione della decisione della Cassazione non è nota. Per i giudici del Riesame di Palermo, però, la donna “ha mostrato di essere in grado di padroneggiare gli strumenti di comunicazione di massa con spregiudicatezza e di volerli finalizzare alla diffusione dell’esaltazione della guerra e del terrorismo islamico. E’ chiaro che la misura dell’obbligo di dimora è quanto meno distonica rispetto al fine cautelare”.