ROMA – A Tor Sapienza c’è un pezzo di Roma sofferente delle periferie che scarica la sua rabbia sugli stranieri in genere, sui migranti del centro di accoglienza di viale Giorgio Morandi e sulle camionette della polizia.
E poi ci sono loro, gli assediati, gli operatori della Cooperativa “Il sorriso” e i migranti sbarcati sulle coste siciliane dopo un lungo viaggio iniziato in Bangladesh, Somalia, Mali, Gambia, Egitto. Settantadue migranti, dei quali 36 vengono sgomberati proprio in queste ore.
“Ci vogliono tutti morti. Tutti, a cominciare da noi operatori. Hanno detto che stasera entrano nel centro e ci ammazzano. E fino ad ora le loro minacce le hanno sempre mantenute”.
La testimonianza di chi vive dentro il Centro di viale Morandi è raccolta da Mauro Favale su Repubblica Roma:
Alle quattro di pomeriggio, per la prima volta dopo tre giorni, si aprono ai giornalisti le porte a vetri (sfondati) della Cooperativa “Il sorriso” che gestisce da tre anni questo centro di accoglienza in via Giorgio Morandi.
C’è Gabriella Errico, la direttrice della struttura, e con lei una dozzina di altri operatori. L’ingresso è spoglio: una portineria, due ascensori, una rampa di scale, due distributori di merendine e bevande. Da lì raccontano la paura e i due assalti subiti lunedì e martedì notte. È l’altro punto di vista rispetto ai residenti ma è il medesimo stato d’animo. “Siamo terrorizzati – continua Gabriella – e con noi anche tutti i ragazzi qui nel centro”. Mentre parla i giovani che arrivano dall’Egitto, dal Gambia, dalla Somalia, dal Mali, dal Bangladesh osservano dalle scale prima spaventati, poi infastiditi, infine incuriositi.
“I minori sono ingestibili – confessa Francesca, un’altra operatrice – il lavoro con loro inizia da zero, fai conto che abbiano 5 anni. Alcuni arrivano direttamente dai barconi che sbarcano sulle nostre coste. Ma dal disagio adolescenziale al reato c’è una bella differenza. E qui nessuno copre gli illeciti. Se sbagliano, sanno che verranno denunciati”. Negano tutte le accuse che arrivano dai residenti, soprattutto quelle che li vedrebbero protagonisti di veri e propri “spogliarelli” davanti alle finestre, sotto lo sguardo dei residenti: “Non è vero – assicura ancora Francesca – la prima cosa che ci hanno chiesto, quando sono arrivati, è di mettere delle tende per non farsi vedere”.
Gli operatori della cooperativa continuano a raccontare, qualcuno dai piani più alti urla: “Sono stanco, stanco”. Da due giorni vivono barricati: anche le sigarette le vanno a comprare gli operatori del centro dal tabacchi più vicino. Non si può rischiare nessun “contatto”. Non dopo le aggressioni degli ultimi giorni, non dopo gli assalti notturni. “Abbiamo rotto letti e porte interne per chiuderci dentro – spiegano – ma non abbiamo più nulla da usare”. All’esterno, i vetri sono sfondati, sul muro ci sono ancora i segni dei petardi lanciati dai residenti. Discutono di come affrontare l’ennesima notte di tensione: “Facciamo un’assemblea fuori dal centro – dicono tra loro – ci mettiamo qui davanti, pacificamente, e proviamo a fronteggiare i residenti, sperando che siano in maggioranza quelli che vogliono difenderci”.
Arriva qualche politico (il consigliere comunale Gianluca Peciola, la deputata Celeste Costantino, entrambi di Sel), davanti al centro si radunano i responsabili di altre associazioni che lavorano sugli immigrati nel quadrante est della città, quello più caldo, dopo le proteste di Torpignattara e di Corcolle, tra settembre e ottobre. “Se ce ne andiamo vince la logica che basta fare casino per chiudere i centri, non possiamo cedere”, spiegano. In questa struttura stretta tra i palazzi di via Morandi sono arrivati 3 anni fa. Prima, con l’emergenza-sbarchi, gli ospiti erano 150.
Ora sono appena 72, distribuiti in 24 per stanza.
L’edificio dove vivono, oltre 3000 mq, era di proprietà di una banca e viene affittato dalla cooperativa a 25.000 euro al mese. Le risorse arrivano dall’Unione europea, dal Campidoglio, dal Viminale attraverso lo Sprar, il servizio per rifugiati e richiedenti asilo. Ogni ospite costa 35 euro al giorno, per vitto, alloggio e anche per qualche vestito. “È questo che dà fastidio ai residenti – prosegue un altro operatore – che vengano spesi dei soldi per gente che non è italiana. Ma noi siamo un paese che ospita”. “Lo sappiamo, qui il disagio è reale, la periferia ha enormi problemi: isolata, senza servizi, in un periodo in cui mancano case e lavoro. Ma ci hanno preso come capro espiatorio”, insiste Gabriella, la direttrice. Vorrebbero invertire la china, provare a far i conoscere di più dal quartiere. “Stavamo facendo una festa, due settimane fa, in un parco, c’erano anche italiani, non posso credere che ora ci vogliono cacciare – dice un ragazzo libico, da 5 mesi in Italia – Ho più paura ora di quando ero in Africa. A questo punto preferivo morire nel mio Paese piuttosto che farmi uccidere qui”.
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