Vercelli: la piccola Matilda uccisa dal compagno della madre

Elena Romani, la madre della piccola Matilda

E’ stato Antonio Cangialosi a uccidere la piccola Matilda il 2 luglio 2005 a Roasio (Vercelli), e non la madre della bimba, commettendo un «delitto insensato e feroce».

Lo hanno scritto i giudici della Corte d’assise d’appello di Torino nelle motivazioni della sentenza con la quale hanno assolto la donna, Elena Romani, dall’accusa di omicidio. Nella casa di Roasio, quel giorno, c’erano solo la bimba, la Romani e il suo compagno, Cangialosi.

Il collegio presieduto da Alberto Oggé ha indicato in Cangialosi (prosciolto durante le indagini preliminari), il colpevole, spiegando che l’uomo ha compiuto un delitto insensato e feroce anche se non si tratta di “un mostro”. Da qui la richiesta della Corte al tribunale di Vercelli di revocare la sentenza di non luogo a procedere.

Elena Romani aveva troncato la relazione con il padre naturale di Matilda nella primavera del 2004 perché – si legge nelle carte processuali – non sopportava che consumasse cocaina. Nel dicembre successivo conobbe Antonio Cangialosi e dopo qualche mese andò a vivere con lui nella villetta di Roasio. A provocare la morte di Matilda fu il gesto di un adulto.

La bambina si trovava su un divano o su un letto, e qualcuno, per bloccarne i movimenti, le schiacciò con forza la schiena con una mano o più probabilmente con un piede. La procura di Vercelli ritenne che ad agire fu la madre, che però fu assolta sia in primo grado che in appello. I giudici di secondo grado, ora, hanno ricostruito gli eventi di quella giornata e le personalità dei protagonisti, arrivando alla conclusione che il colpevole è Cangialosi. La Corte è del parere che Matilda volesse raggiungere la mamma fuori dalla stanza, e Cangialosi, agendo con “sconsiderata brutalità”, l’abbia fermata in quel modo.

Si tratta, per i giudici, di un omicidio preterintenzionale. L’uomo «è un soggetto aggressivo e violento, orgoglioso della propria prestanza fisica, incapace di comprendere l’assurda crudeltà del modo con cui stava operando». E voleva «imporsi» sulla bambina, la quale (secondo i giudici) «aveva individuato d’istinto nei confronti del Cangialosi una figura ostile», al punto da somatizzare reazioni di «rigetto e fuga come frequenti conati di vomito e tentativi di “rifuggire appena possibile dalla sua presenza».

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