Via Poma, “Dubbi sul morso, niente prove”. Ecco perché hanno assolto Busco

ROMA – Non ci sono prove. Non c’è un movente. Per questo Raniero Busco è stato assolto, in Appello, dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni nell’agosto 1990. Un mistero che dura da più di 20 anni e che il processo non ha contribuito a chiarire. I giudici d’appello hanno ribaltato la sentenza di primo grado. E venerdì sono uscite le motivazioni alla sentenza.

 ”Non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità di Raniero Busco’‘ dall’accusa di omicidio aggravato ai danni di Simonetta Cesaroni, uccisa con il 7 agosto 1990 in via Poma.  A 42 giorni dalla sentenza della I corte di assise di appello che ha assolto Busco, per non aver commesso il fatto, sono state depositate le motivazioni. Si tratta di 186 pagine in cui il collegio presieduto da Mario Lucio D’Andria (l’estensore della sentenza è Giancarlo De Cataldo) sono spiegate le ragioni per cui Busco non è ritenuto responsabile, così come sentenziato in primo grado (24 anni di reclusione inflitti), per quello che rimane uno dei grandi misteri di cronaca giudiziaria di Roma.

Non c’è alcuna prova che Raniero Busco avesse un movente per uccidere l’ex fidanzata Simonetta Cesaroni, scrivono ancora i giudici. Tra l’altro si accenna al ritrovamento di ”tracce biologiche ed ematiche attribuibili a due diversi soggetti di sesso maschile che non possono identificarsi con Raniero Busco”. La relazione dei due ragazzi – si legge nelle motivazioni della sentenza – ”poteva essere problematica”, ma dagli atti processuali e dal dibattimento ”non sono emersi atti specifici di violenza commessi dall’ imputato in danno della vittima, né si può affermare che Busco sia portatore di personalità violenta”. Inoltre, non c’è prova che fra Simonetta e Raniero ”si fosse convenuto di incontrarsi il pomeriggio del 7 agosto presso gli uffici di via Poma, e non vi è nemmeno prova che Busco conoscesse il luogo di lavoro di Simonetta”. Sull’alibi fornito da Raniero, i giudici scrivono che non vi è prova sia stato un ”alibi mendace”, essendoci di contro elementi che ”inducono a ritenere che egli abbia, sin da subito, ricostruito i movimenti del pomeriggio del 7 agosto in termini sostanzialmente coincidenti con quelli poi emersi nel corso del dibattimento. In ogni caso, si può al massimo parlare di alibi carente ovvero assente, ma non mendace”.

Già in primo grado i giudici che si sono pronunciati, condannando Raniero Busco, sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, si erano soffermati su alcuni punti della vicenda che, a loro dire, il dibattimento non era riuscito a chiarire: adesso i giudici d’appello li fanno propri e rilanciano. Su tutti: ”la resistenza della portiera Giuseppa De Luca (moglie del portiere Pietrino Vanacore, suicidatosi alla vigilia della sua deposizione nel processo di primo grado,ndr) a consegnare le chiavi (dell’ufficio di via Poma,ndr) al personale delle Volanti della Questura”, ma anche il non giustificabile possesso delle stesse che ”erano il mazzo di riserva degli ‘Ostelli’, e non avrebbero dovuto trovarsi nella disponibilità della donna”. E poi: il ritrovamento dell’agendina rossa di Vanacore fra gli effetti personali di Simonetta, nonostante lui ”aveva sempre dichiarato di non essere entrato in quell’ufficio prima dell’accesso che avrebbe portato alla scoperta del cadavere”.

Infine, i giudici d’appello si soffermano sulla ”lettura unitaria della vicenda” proposta dal pm durante il processo di primo grado. Ricostruì il pm -dicono in sostanza i giudici della corte di assise di appello – che il portiere Vanacore, avendo trovato socchiusa la porta degli uffici di via Poma era entrato, aveva trovato il cadavere e, invece di chiamare la polizia, aveva cercato di contattare telefonicamente i ”possibili personaggi di rilievo” interessati alla vicenda (direttore e il presidente dell’Aiag ma anche i datori di lavoro di Simonetta), lasciando l’agendina Lavazza sulla scrivania di lavoro della ragazza; quindi era uscito chiudendo la porta a chiave utilizzando le chiavi che si trovavano appese allo stipite della porta d’ingresso degli uffici. ”Il primo giudice – si legge nella sentenza d’appello – ritenne questa ricostruzione suggestiva, plausibile, ma, ovviamente, non provata, e concluse per la sua sostanziale irrilevanza, attesa l’acclarata responsabilità di Busco. L’impossibilità di addivenire in questa sede a una tranquillante certezza in ordine alla responsabilità di Raniero Busco ripropone, rendendoli ancora più inquietanti, gli interrogativi sopra evidenziati”.

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