ROMA – Il crollo del viadotto sulla A6 a Savona e la voragine sull’A21 Torino-Piacenza, domenica 24 novembre si aggiungono ai problemi che autostrade, ma anche ferrovie, hanno ormai da anni. Pesano i lavori mal eseguiti e i mancati adeguamenti a norme europee, mettendo così l’Italia a rischio paralisi.
Alla fine di settembre, dal ponte Bisagno dell’autostrada A12, si è staccato un pluviale, un tubo per lo scolo dell’acqua piovana, che è precipitato in mezzo a una strada della periferia di Genova. Come scrive il Corriere della Sera, questa è stata l’ultima emergenza prima del crollo del viadotto sulla Torino-Savona.
L’ex ministro Danilo Toninelli aveva annunciato, poche ore dopo il crollo del Ponte Morandi, il passaggio dalla logica dell’emergenza delle infrastrutture a quello della prevenzione con l’istituzione dell’Ansfisa (Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali) e avrebbe dovuto superare la vecchia e poco utilizzata Direzione generale per la vigilanza sui concessionari, ente pubblico con limitate risorse e ancor meno potere, impossibilitata com’era a operare veri controlli sui 7.317 ponti, viadotti e tunnel che rientrano nelle concessioni dei 19 gestori autostradali in teoria monitorati dall’Anac.
I viadotti sotto indagine
Pecetti (A26) – Liguria.
Veilino (A12) – Liguria.
Varenna Ovest (A10) – Liguria.
Bisagno (A12) – Liguria.
Costa (A10) – Liguria.
Vesima (A10) – Liguria.
Letimbro (A10) – Liguria.
Lupara (A10) – Liguria.
Polcevera (A10) – Liguria.
Cerusa 1 (A26) – Liguria.
Gargassa (A26) – Liguria.
Giustina (A14) – Abruzzo.
Moro (A14) – Abruzzo.
Paolillo (A16) – Puglia.
Sarno (A30) – Campania.
“Adesso cambia tutto” aveva detto Toninelli ai genovesi che si erano dati appuntamento in piazza De Ferrari per ricordare le 43 vittime del ponte Morandi. Ma l’Ansfisa è in attesa del parere del Consiglio di Stato su un regolamento attuativo scritto solo nel luglio 2019, un anno dopo l’annuncio dell’ex ministro.
In Italia non è mai esistita una mappatura delle infrastrutture a rischio, autostradali o meno. Al netto delle 28 opere di Autostrade per l’Italia segnalate su tutto il territorio nazionale dagli ispettori della Guardia di Finanza per conto della Procura di Genova, fa ancora fede il rapporto dell’istituto di tecnologia delle costruzioni del Cnr, che risale al giugno del 2018, quando mancava poco più di un mese al crollo del viadotto sul Polcevera. La premessa era chiara. Il nostro sistema di infrastrutture stradali non regge più, perché la maggior parte dei ponti e viadotti italiani è stato costruito tra il 1955 e il 1980.
“Hanno superato la durata di vita per la quale sono stati progettati”. Incrociando età anagrafica, interventi straordinari e allarmi raccolti dai gestori, il Cnr identifica venti ponti o viadotti che “destano preoccupazione”, talvolta sovrapposti alle segnalazioni della magistratura. Ci sono quelli sulla superstrada Milano-Meda in Brianza, c’è il viadotto Manna in Campania e quelli abruzzesi sulla A24/25 danneggiati dal terremoto del 2009. In Sicilia c’è il caso di un altro ponte realizzato da Riccardo Morandi, tra Agrigento e Villaseta, chiuso dal 2017 e con costi di riparazione esorbitanti, almeno trenta milioni di euro.
Come ha dichiarato oggi, 25 novembre, il presidente dell’Unione Provincie Italiane Michele de Pascale, “nell’agosto del 2018, all’indomani della tragedia del ponte Morandi, ci venne chiesto un monitoraggio urgente sugli oltre 30.000 ponti, viadotti e gallerie in gestione. In poche settimane consegnammo al Ministero delle Infrastrutture un quadro da cui emergeva la necessità di intervenire su 5.931 strutture, su cui avevamo già pronti i primi progetti, e di procedere con indagini tecnico diagnostiche urgenti su 14.089 opere. Ma nulla è stato fatto”.
“Ci aspettavamo che questa analisi dettagliata portasse a risorse mirate, invece nulla è stato fatto – continua de Pascale -. Non solo, le Province continuano ad essere sottoposte ad un assurdo blocco di assunzioni, del tutto ingiustificabile, che non ci permette di avere personale tecnico specializzato, ingegneri, progettisti, tecnici, indispensabili per far procedere rapidamente gli investimenti. Un blocco che sembra essere tutto ideologico, non giustificato da motivi tecnici né di spesa, frutto del pregiudizio contro le Province che non fa che riflettersi sui servizi ai cittadini, e perfino sulla loro incolumità e sicurezza”.
“Abbiamo chiesto a Governo e Parlamento di cancellare, nella Legge di Bilancio 2020, i limiti alle assunzioni di personale, per permetterci di ricostruire al meglio dell’efficienza le nostre strutture, svuotate dopo l’esodo imposto nel 2015, e anche di consentire a tutti gli enti locali di accedere al fondo per le progettazioni, oggi ad esclusivo appannaggio dei Comuni. Un fondo di 2,7 miliardi per 15 anni, da cui sono escluse Province e Città metropolitane, le istituzioni che hanno in gestione 7.400 scuole superiori, 130 mila chilometri di strade e 30.000 ponti, e a cui è demandato di assistere i Comuni, specie i piccoli, proprio nella progettazione. Per ora su queste richieste non abbiamo ricevuto alcuna risposta” conclude de Pascale.
Ma in Italia non ci sono solo le infrastrutture autostradali a far tremare i polsi. A raccontare quanto succede sulle ferrovie italiane è il rapporto Pendolaria di Legambiente, che dal 2008 analizza ogni anno la situazione del trasporto ferroviario in Italia.
Il trasporto ferroviario è un po’ lo specchio del Paese e delle sue contraddizioni, con segnali di straordinaria innovazione e regioni dove, invece, il degrado del servizio costringe centinaia di migliaia di persone a rinunciare a prendere il treno per spostarsi. Il numero dei passeggeri aumenta, toccando quota 5,59 milioni e segnando un nuovo record rispetto al 2012 (+7,9% in 4 anni). Sono infatti 2 milioni e 874 mila coloro che ogni giorno usufruiscono del servizio ferroviario regionale e 2 milioni e 716 mila quelli che prendono ogni giorno le metropolitane, presenti in 7 città italiane, in larga parte pendolari. E per entrambi i numeri sono in crescita, come per l’alta velocità. Ma il paradosso c’è: diminuiscono i chilometri di linee disponibili e la crescita nasconde differenze rilevanti nell’andamento tra le diverse Regioni e tra i diversi gestori.
In alcune parti del Paese la situazione è migliorata, mentre in altre è peggiorata e si è ampliata la differenza nelle condizioni di servizio. Tra Firenze e Bologna, per esempio, l’offerta di treni non ha paragoni al mondo, con 162 treni che sfrecciano a 300 km/h nei due sensi di marcia ogni giorno (erano 152 lo scorso anno, 142 due anni fa, mentre erano solo 18 gli Eurostar nel 2002); altrove viaggiano vecchie carrozze diesel e sulla Roma-Lido di Ostia e la Circumvesuviana quasi sessanta mila persone che non prendono più il treno per via dei tagli e del degrado del servizio.
Il trasporto ferroviario soffre della riduzione dei finanziamenti statali, con una diminuzione delle risorse nazionali stanziate tra il 2009 e il 2018 pari a -20,4%, (che potrebbe diventare del 26,2% se confermato un taglio ulteriore di 300 milioni) mentre i passeggeri crescevano del 6,8%. Per i trasporti su gomma e su ferro si è passati da una disponibilità di risorse di circa 6,2 miliardi di euro a 4,8 miliardi nel 2019. Per quest’anno le risorse si sono ridotte di 56 milioni di euro, ma Legambiente lancia un allarme perché si potrebbe aggiungere un ulteriore taglio di 300 milioni, per una clausola di salvaguardia nella legge di Bilancio che ha buone probabilità di scattare vista la situazione economica. A quel punto le risorse in meno sarebbero oltre il 6%, rispetto allo scorso anno, con la conseguenza di vedere meno treni nelle Regioni.
L’Italia, insomma, è spaccata a metà, con 9 Regioni e le due Province autonome in cui i passeggeri sono aumentati e 10 in cui sono diminuiti o rimasti invariati. Cresce il numero di persone che prende il treno al nord – come in Lombardia (750mila), è triplicato dal 2001 in Alto Adige, raddoppiato in Emilia-Romagna, cresciuto di 60mila in Puglia. Molto diversa la situazione del Piemonte dove a causa delle linee soppresse i passeggeri sono calati del 4,4% mentre è drammatica in particolare la situazione in Sicilia, dove si è passati da 50.300 a 37.600 viaggiatori (dal 2009 ad oggi) in una Regione con 5 milioni di abitanti e grandi spostamenti pendolari, e in Campania dove si è passati da 413.600 viaggiatori a 308.500 (ma con un trend in risalita negli ultimi anni).
Fonti: CORRIERE DELLA SERA – LEGAMBIENTE.