Bangladesh. Pena di morte per il capo del partito islamista

Motiur Rahman Nizami
Motiur Rahman Nizami

BANGLADESH, DACCA- La Corte Suprema del Bangladesh ha respinto mercoledì un ricorso del leader del maggior partito islamista contro la sua condanna a morte per presunti omicidi e atrocità durante la guerra di indipendenza dal Pakistan del 1971.

Motiur Rahman Nizami, capo del partito Jamaat-e-Islami, è stato condannato l’anno scorso da un tribunale speciale per i crimini di guerra per 16 capi di imputazione, compresi genocidio, omicidio, tortura, stupro e distruzione di proprietà. La decisione della Corte Suprema toglie l’ultimo ostacolo alla sua impiccagione, salvo una improbabile grazia presidenziale.

L’annuncio della condanna a morte di Nizami ha suscitato approvazione nei militanti della governativa Lega Awami della premier Sheikh Hasina, ma contemporaneamente un’ondata di nuove proteste del partito Jamaat-e-Islami che ha annunciato per giovedi uno sciopero dall’alba al tramonto. Gli avvocati dell’imputato in una conferenza stampa hanno indicato che ora consulteranno il loro difeso per decidere le eventuali iniziative da adottare per cercare di evitare l’esecuzione della pena capitale.

La sentenza del Tribunale d’Appello della Corte Suprema sarà pubblicata e poi inviata al tribunale speciale che ha condannato Nizami a morte. Questo la trasmetterà a sua volta alle autorità penitenziarie che la leggeranno al condannato. Dopodiché i suoi legali potranno presentare alla Corte Suprema una ‘Review Petition’. Se la massima pena sarà mantenuta, non resterà che una richiesta di grazia al presidente della repubblica.

Con quella odierna è la sesta volta che la Corte Suprema esamina appelli alle sentenze di condanna a morte firmate dai giudici del Tribunale Speciale per i crimini di guerra, confermandone cinque e commutandone all’ergastolo un’altra. Fino ad oggi il Tribunale speciale che si occupa dei crimini di guerra commessi dagli avversari musulmani dell’indipendenza bengalese ha condannato a pene diverse 15 persone, di cui quattro sono già state giustiziate.

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