La tortura aprì la pista Bin Laden. Quegli interrogatori a Guantanamo

Khaled Sheikh (foto LaPresse)

NEW YORK – Che Bin Laden sia stato stanato e ucciso è un fatto. Allo stesso modo è un fatto (non smentito) che a dare agli Stati Uniti informazioni decisive per rintracciare il terrorista sia stato un corriere, uno dei pochissimi uomini ammessi al  cospetto del leader di al-Qaeda. Le domande, a questo punto, sono altre: come sono arrivati gli Usa al corriere? E come gli hanno estorto l’informazione più preziosa, quella che ha assorbito 10 anni di ricerche e spese per un miliardo e trecentomilioni di dollari.

Il sospetto, qualcosa di più, è che c’entri la tortura nella forma del waterboarding, dolorosa e pericolosa simulazione di annegamento. Tortura neppure usata in modo sporadico e occasionale, ma mirata e continua. A scriverlo per primi sono stati i giornali inglesi, Telegraph su tutti, tracciando una linea precisa che parte da Guantanamo (la prigione per terroristi che Barack Obama voleva chiudere e che invece è ancora là) e arriva nella città di Abbotabad, 50 chilometri a nord di Islamabad. A Guantanamo, infatti, è rinchiuso Khaled Sheikh, quello che negli Stati Uniti è considerato la vera mente dell’undici settembre, da sempre uomo chiave nel complesso ingranaggio di al-Qaeda. Sheikh è un “duro” di al-Qaeda: uno che non ha mostrato ombra di pentimento, uno giudicato troppo pericoloso per essere processato da una corte civile persino sotto l’amministrazione Obama. Finirà processato e condannato a morte da un tribunale militare. Non aveva nulla da guadagnare e non avrebbe mai parlato spontaneamente.

Allora a Guantanamo il problema l’hanno risolto, scrivono gli inglesi, col waterboarding: prigioniero in terra, panno che copre la testa e giù acqua. La sensazione è tutta quella dell’annegamento: buio, impossibiltà di respirare e il dolore dell’acqua che entra nei polmoni. Qualcuno, in passato, ci è quasi rimasto. In ogni caso il waterboarding può causare danni a polmoni e cervello. Sta di fatto che, in qualche modo, dalla bocca di Sheikh esce un nome, quello di Abu Farjai al-Lib detenuto anche lui a Guantanamo dal 2005. Altra passata di waterboarding ed esce un terzo nome, quello di Abu Ahmed al-Kuwaiti. Uomo misterioso e irrintracciabile fino al 2010, quando la Cia capta una sua telefonata. Da quel momento Ahmed è pedinato e braccato: va e viene da un complesso fortificato ad Abbotabad. Il resto è cronaca di questi giorni.

Per alcuni repubblicani, sia chiaro, il waterboarding (tanto di moda ai tempi dell’amministrazione Bush) non è neppure tortura. In base a quale motivazione non è dato saperlo. Amnesty International non la pensa così e non è sola. Rimane il fatto che non dà esattamente l’impressione di essere una pratica modello per “esportatori di diritti e democrazia”. Il premier inglese David Cameron la condanna apertamente: “La tortura non è giustificata e spesso porta a informazioni inaffidabili”. Sta di fatto che, davanti alle insinuazioni dei giornali, dalla Casabianca non si levano ancora  smentite ufficiali. E questo alimenta i dubbi. L’unico a parlare è Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa durante gran parte dei due mandati di George Bush. Secondo lui le informazioni sono state ottenute “con un normale approccio d’interrogatorio”. Ci sarebbe da interrogarsi su cosa è considerato “normale” a Guantanamo. Rimane il fatto che Obama, nel 2009, il waterboarding lo ha messo fuori legge. Chi controlla, però, che la legge sia effettivamente rispettata?

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