ROMA – Che i cinesi fossero razzisti lo si sapeva dai tempi in cui leggevamo i romanzi di Emilio Salgari. A dire il vero, non è che gli occidentali, i bianchi, fossero meno razzisti. Nel dopoguerra, la xenofobia cinese aveva trovato una giustificazione morale nella lotta al capitalismo e al colonialismo.
In Kenya il razzismo degli inglesi gli indigeni lo hanno sperimentato sulla propria pelle, con persecuzioni e stragi che poco avevano da invidiare col peggiore Hitler. Quando era una colonia britannica, dove regnava la supremazia bianca e le persone di colore erano costrette a portare documenti di identificazione al collo. Ma dal 1963 il Kenya è diventata una nazione indipendente.
Per le nuove generazioni di Kenyioti, il razzismo faceva parte dei racconti dei padri e dei nonni, un passato che si sperava non dovesse più tornare.
L’esempio del Kenya deve dare i brividi anche in Italia, dove per anni la Cina ha costituito modello di paradiso terrestre per gruppi di insipienti borghesi e dove sono ormai radicate importanti comunità cinesi che prosperano avvolte da qualche dubbio sul rispetto delle leggi fiscali e del lavoro (non solo i cinesi, se è per questo).
La Cina è la potenza mondiale che disputerà agli Usa il predominio sul pianeta. Il pericolo che l’Italia corre è di finire colonia cinese. L’esempio del Kenya è un monito.
Dice un giovane imprenditore kenyota: “I cinesi sono quelli con i capitali, ma per quanto possiamo volere i loro soldi, non vogliamo che nel nostro paese ci trattino come se non fossimo umani”.
Negli ultimi dieci anni, la Cina ha prestato denaro e costruito infrastrutture di ampia portata in tutta l’Africa. Per pagare questi progetti, molte nazioni africane hanno preso prestiti dalla Cina o si sono basate su risorse naturali come le riserve di petrolio. E quando si calcolano i costi, le nazioni africane si sono generalmente concentrate sui loro crescenti debiti o, occasionalmente, sulle pratiche di sfruttamento del lavoro di alcune aziende cinesi.
I lavoratori raccontano di episodi di razzismo o discriminazione a cui hanno assistito. Uno ha riferito di un manager cinese che ha schiaffeggiato una collega keniota per un errore di modesta entità.
Un altro operaio keniota ha parlato di come un manager cinese abbia ordinato ai dipendenti kenioti di sturare un orinatoio intasato di mozziconi di sigarette, anche se all’interno avevavano osato fumare solo i dipendenti cinesi.
A lanciare il caso sul piano internazionale, dopo un articolo del New York Times, è stato un video registrato e messo in rete da Richard Ochieng.
Ochieng, 26 anni, aveva trovato lavoro in un’azienda cinese di ciclomotori ma il nuovo capo aveva iniziato a chiamarlo scimmia.
Mentre erano insieme per un giro di vendite, videro un gruppo di babuini sul ciglio della strada. “I tuoi fratelli”, aveva esclamato il capo, esortando Ochieng a “condividere alcune banane con i primati”, racconta il giovane. “Perché sei keniota”. Tutti i kenioti, persino il presidente, sono “come scimmie”.
Ochieng rispose che i kenioti potevano essere stati oppressi una volta, ma che dal 1963 erano un popolo libero. “Come le scimmie, anche le scimmie sono libere“, la risposta del capo cinese.
Durante una vendita, il capo aveva commentato:”Questo africano è molto sciocco”.
Ed è successo nuovamente, ha detto Ochieng, il capo parlava dei kenioti come se fossero primati.
Umiliato e indignato decise di registrare uno dei discorsi del capo, catturò una frase mentre dichiarava che i kenioti erano una “popolazione di scimmie”.
In seguito all’ampia diffusione del video ripreso con il cellulare, le autorità hanno velocemente espulso il capo in Cina.
Molti cinesi arrivano con una visione gerarchica della cultura e della razza e tendono a collocare gli africani all’ultimo posto, ha osservato Howard French, ex corrispondente del New York Times che ha scritto il libro ““China’s Second Continent”, Il secondo continente cinese, in cui racconta la vita dei coloni cinesi in Africa.
Accuse di discriminazione sono emerse perfino in un grande progetto sponsorizzato dallo stato, una ferrovia cinese di 300 miglia costruita tra Nairobi e Mombasa, diventata un simbolo nazionale del progresso e della cooperazione keniota-cinese, al costo di 4 miliardi di dollari.
A luglio, The Standard, un giornale keniota, ha pubblicato un articolo in cui veniva descritta, sotto la gestione cinese, un’atmosfera di “neocolonialismo” per gli operatori ferroviari kenioti. Alcuni sono stati sottoposti a punizioni umilianti mentre agli ingegneri kenioti è stato impedito di condurre il treno, tranne quando sono presenti i giornalisti.
Diversi conducenti di locomotive, attuali ed ex, hanno concordato che solo quelli cinesi hanno potuto guidare il treno, descrivendo una serie di comportamenti razzisti.