Cina, censura e arresti: il regime schiaccia i germoglia della “rivolta dei gelsomini”

ROMA – Il contagio della rivolta sta dando i primi sintomi anche in Cina, o meglio, stava. A muoversi però questa volta non sono stati tanto i dimostranti, sottolinea Repubblica, ma il loro fantasma che corre sul web.

Dopo il germoglio di manifestazione per la democrazia lo scorso 27 febbraio, che ha visto più poliziotti in borghese che dimostranti, le autorità temono che il vento del Nord Africa arrivi nella Repubblica Popolare.

Per evitare che nascano focolai di rivolta la strategia cinese è quella di aprire cantieri improvvisi attorno ai siti sospetti, o fingere azioni di pulizia in quegli stessi luoghi.

Ma soprattutto, il metodo più efficace è la solita, vecchia censura, usata questa volta sul nuovo, moderno, mezzo di comunicazione per eccellenza: internet.

Il primo appello in rete a “manifestare pacificamente per chiedere democrazia, libertà e giustizia” dava appuntamento ogni domenica alle 14 nel centro di una ventina di città-chiave. Ma da quando è stato lanciato per domenica 20, è stato raccolto da poche centinaia di persone.

Nessuno slogan, nessuno striscione, volti coperti, solo qualche crisantemo lanciato in aria: tanto è bastato ai pochi manifestanti per essere picchiati e arrestati dai numerosi agenti in borghese presenti sul posto.

Il governo ha scatenato la propaganda contro “le forze straniere ostili”, ha sottolineato le differenze tra Nord Africa e Cina, e, naturalmente, ha arrestato avvocati e dissidenti. Domenica scorsa, 27 febbraio, Pechino, Shanghai e le più importanti città cinesi sono state blindate e allagate dall’esercito.

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