NEW YORK – Condanna all’ergastolo, altri 30 anni per l’uso di armi e un risarcimento di 12,6 miliardi di dollari, pari ai proventi del maxi traffico di droga negli Usa gestiti dal suo cartello di Sinaloa. Finisce così, in un’aula di tribunale a New York, la lunga parabola di Joaquin Guzman, 62 anni, noto come El Chapo (il corto) per i suoi 160 centimetri di statura, incontrastato re del narcotraffico messicano per oltre 20 anni.
Il processo super blindato è durato tre mesi e si è concluso a febbraio con un verdetto di colpevolezza per tutti e dieci i capi di imputazione: dal traffico di tonnellate di stupefacenti al riciclaggio di denaro e alcuni omicidi che hanno insanguinato la lotta tra cartelli. Il boss sconfitto ha accolto la sentenza con lo sguardo basso. In aula, con gli occhi lucidi, anche la terza moglie Emma Coronel Aispuro che non si è mai persa un’udienza.
Prima della lettura, El Chapo ha preso la parola per dire che gli è stato negato un giusto processo e denunciare le dure condizioni carcerarie. “Dato che il governo degli Stati Uniti mi sta per mandare in una prigione dove il mio nome non sarà mai più sentito, colgo questa occasione per dire che non c’è giustizia qui”. “La mia detenzione è una tortura psicologica, emotiva e mentale 24 ore al giorno”, ha accusato, mentre il suo avvocato rilanciava inutilmente la richiesta di un nuovo processo sostenendo che i giurati avevano violato l’ordine di non leggere le notizie sul dibattimento e ne erano stati condizionati.
Il boss si era già lamentato della sua detenzione in totale isolamento, in una prigione fortezza di lower Manhattan, quando gli era stata negata la domanda di avere più tempo per fare ginnastica sul tetto del penitenziario: rischio di fuga, avevano risposto i procuratori. Del resto El Chapo è diventato una figura leggendaria anche per le sue due ingegnose evasioni da carceri di massima sicurezza messicani: la prima nel 2001, quando si nascose in un carrello della lavanderia, la seconda nel 2015, quando scomparve in un tunnel ventilato lungo un chilometro e mezzo scavato sotto la sua cella.
Ora lo attende un penitenziario federale americano di livello Supermax, ovvero super-maximum security, il più alto grado di sicurezza esistente nel sistema americano. El Chapo trascorrerà il resto dei suoi giorni nell’Adx di Florence, in Colorado, dove sono rinchiusi alcuni dei peggiori criminali condannati negli Usa. Un carcere conosciuto come l’Alcatraz of the Rockies, cioè l’Alcatraz delle Montagne Rocciose. E questa volta sarà difficile evadere: nell’Adx Supermax i detenuti passano fino a 23 ore al giorno in isolamento, i loro contatti con altri esseri umani sono ridotti al minimo, tanto che non possono uscire dalle loro celle – di soli 7 metri quadrati – neanche per mangiare. Il carcere, che i media descrivono a volte come “una versione pulita dell’inferno”, è inoltre protetto da un alto reticolato sormontato da filo spinato e punteggiato da torrette con agenti armati.
Un finale duro da digerire per un uomo che ha diretto per 25 anni uno dei cartelli della droga più potenti del pianeta con tanto di aerei, navi e sommergibili, e che è stato considerato da Forbes uno degli uomini più ricchi del mondo. E pensare che era nato da una famiglia povera in un villaggio di montagna ed era partito da niente, vendendo arance, caramelle e bibite gasate. Poi si era messo a coltivare marijuana e i papaveri per l’oppio, finché non era stato reclutato dal capo di un cartello della droga e, dopo il suo arresto nel 1989, si era messo in proprio creando un impero con ramificazioni europee ed asiatiche.
Per la gente del posto era una sorta di Robin Hood, un eroe popolare, ma era anche spietato, come emerso nel corso del processo. A tradirlo è stata la sua vanità, il suo desiderio di diventare protagonista di un film raccontando la propria storia alla star Sean Penn nel 2015: la polizia ha intercettato un suo messaggio all’attrice americano-messicana Kate Del Castillo, che incarnava il capo di un cartello nella serie La regina del sud e che accompagnava Penn per l’intervista.