NEW YORK – Scatta la prima class action contro Facebook e Cambridge Analytica negli Stati Uniti.
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L’azione legale è stata avanzata presso la corte distrettuale di San Josè, in California, e potrebbe aprire la strada a molte altre cause collettive per la richiesta dei danni provocati dalla mancata protezione dei dati personali. Dati raccolti senza alcuna autorizzazione – spiegano i promotori dell’azione legale – e che sono stati utilizzati per avvantaggiare la campagna di Donald Trump.
Dopo 48 ore di silenzio, Zuckerberg ha finalmente parlato agli utenti e ai suoi dipendenti. Per farlo, ha scelto proprio un post su Facebook sul suo profilo personale in cui scrive:
“Abbiamo fatto degli errori, c’è ancora molto da fare. Abbiamo la responsabilità di proteggere le vostre informazioni. Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non riusciamo a farlo non meritiamo di essere al vostro servizio. Stiamo lavorando per capire esattamente cosa è successo e assicurarci che non accada mai più. La buona notizia è che molte misure per prevenire tutto questo sono state già prese anni fa”.
E intanto si infittiscono le voci di altre teste pronte a cadere dopo quella del responsabile per la sicurezza informatica Alex Stamos. Con qualche analista che azzarda l’ipotesi di un clamoroso passo indietro dello stesso presidente ed amministratore delegato di Facebook, fino a pochi giorni fa considerato una sorta di “imperatore a vita”. A meno che non si scelga di sacrificare l’altro volto noto del gruppo, la direttrice generale Sheryl Sandberg.
Intanto la società è tornata a difendersi affermando di essere stata ingannata sulla raccolta delle informazioni personali degli utenti: una dichiarazione che per lo meno sembra essere riuscita a calmare i mercati dopo due giorni di passione a Wall Street, con un crollo del titolo senza precedenti: ben 50 i miliardi di dollari andati in fumo dall’inizio dello scandalo.
Il danno più grave però sembra essere quello di immagine, e la perdita di fiducia da parte di quel popolo di Facebook che si è sentito raggirato, con i propri dati utilizzati per fini politici, che si tratti del referendum sulla Brexit o dell’elezione di Donald Trump. Nel mirino è una gestione della privacy troppo lassista da parte del gruppo dirigente, almeno fino al 2015. Ed è su questo punto che insistono i promotori della causa collettiva avanzata presso la corte distrettuale federale di San José, a due passi dalla Silicon Valley, alla quale ora chiedono i danni.
A rafforzare il possibile legame tra il datagate di Facebook e il trionfo del tycoon alle urne nel novembre del 2016 c’è anche la storia raccontata da Chris Wylie, la talpa che con le sue rivelazioni ha provocato il terremoto. Per l’ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato dal Washington Post, il programma per la raccolta di dati su Facebook fu avviato nel 2014 dalla sua ex società sotto la supervisione di Steve Bannon, l’ex stratega politico di Trump. Fu dunque l’allora numero uno di Breitbart News – entrato nel board di Cambridge Analytica e divenutone vicepresidente – la mente di tutto.
Tre anni prima il suo incarico alla Casa Bianca, Bannon cominciò a lavorare a un ambizioso progetto: costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui testare l’efficacia di molti di quei messaggi populisti che furono poi alla base della campagna elettorale di Trump. Fu sempre Bannon a far avere a Cambridge Analytica, dove rimase fino all’agosto 2016, i finanziamenti dei suoi ricchi sostenitori, a partire dalla famiglia miliardaria dei Mercer.
A lanciare la sfida al colosso dei social media è uno dei fondatori di WhatsApp. Brian Acton, divenuto miliardario vendendo la sua app proprio a Zuckerberg, si è apertamente schierato con il movimento #deletefacebook, invitando i suoi follower su Twitter a cancellarsi dal social blu: “It’s time”, è tempo di farlo, ha scritto, raccogliendo in 11 ore 9 mila like, con il suo post condiviso oltre 4 mila volte.