Spesso, troppo spesso, nelle foto scattate in zona di guerra le macerie scavate da proiettili e bombe vengono “arredate” con giocattoli di bimbi. Il gioco preferito è quasi sempre un pupazzo, ogni volta diverso, abbandonato tra le rovine a testimoniare la vita interrotta e spezzata.
Il New York Times li ha chiamati toys photographers “i fotografi di giocattoli”. L’unico che ha risposto alle domande del quotidiano americano è stato Ben Curtis che ha spiegato come a volte la realtà venga manipolata dai fotografi stessi: «Esiste una manipolazione che avviene con Photoshop» ha spiegato Curtis. Voler fotografare il giocattolo rende così la scena più drammatica attraverso l’introduzione del simbolo per eccellenza dell’innocenza violata. Un’abitudine dunque che si esercita al confine tra la “professionalità” della foto e l’artificio che sostituisce la realtà. Dove finisce il fotografo che narra per immagini e comincia invece il confezionatore di una “merce” visiva?
«L’uso di giocattoli nelle foto di conflitto è una pratica comune nel nostro mondo» spiega Francesco Zizola photoreporter romano, sette volte vincitore del prestigioso World Press Photo. «Io per primo nel 1996 ho ricevuto il premio per la foto dell’anno con un’immagine che ritrae una bambina angolana che stringe una bambola: in quel caso la bambola è un elemento legittimo per raccontare la tragedia delle mine anti-uomo,e non il tentativo di enfatizzare una scena drammatica perché altrimenti non lo sarebbe». Sono tanti però quelli che, a detta di Zizola, «cercano di compensare la mancanza di visione con la retorica».
Nelle immagini che seguono vengono mostrati dei giochi di bambino fotografati tra le macerie della guerra di Libano del 2006. Le foto portano la firma dell’Associated Press e della Reuters.