Jack Johnson, il pugile nero distrutto da una condanna razzista. Obama però non lo riabilita

johnsonIl pugile di colore Jack Johnson fu condannato quasi 100 anni fa negli Stati Uniti per aver avuto rapporti con una donna bianca, una condanna a sfondo razzista che gli costò la carriera, costringendolo a fuggire dagli Usa per evitare il carcere. Una brutta storia che nonostante gli anni passati, rimane ancora presente negli atti legali e giuridici del Paese.

Fu proprio l’attuale presidente degli Stati Uniti Barack Obama a chiedere la riabilitazione del pugile, sollecitato anche dal suo rivale nelle scorse elezioni presidenziali, John McCain, ma a ormai sei mesi di distanza, il nuovo presidente Usa non ha ancora fatto nulla e la pratica di Jack Johnson è ancora lì che giace impolverata su qualche scaffale chissà dove.

«Sono sicuro che il presi­dente sia l’ultima persona che dovrò convincere» aveva det­to McCain 6 mesi fa, quando era riuscito a far approvare a Senato e Camera una risoluzio­ne bipartisan, che invitava il presidente a «eliminare dagli annali della giustizia penale americana un abuso dell’auto­rità inquirente, motivato da ra­gioni razziali».

Sono seguite due lettere per­sonali a Barack Obama dell’ex candidato alla Casa Bianca, l’ultima 10 giorni fa, in cui Mc­Cain ha rinnovato l’appello a «aggiustare il torto e cancella­re un atto razzista che inviò un cittadino americano in car­cere ». Ma nessuna risposta è venuta dal presidente, né al­cun commento dal suo staff.

Eppure il caso Johnson, per la sua ingiustizia, gri­da vendetta. «Non ci sono im­plicazioni ideologiche, sareb­be un simbolo di armonia raz­ziale e politica», spiega Peter King, che va regolarmente in palestra a boxare. «Il tratta­mento di Jack Johnson fu così vergognoso da andare oltre ogni possibilità di controver­sia, anche agli occhi dei più bi­gotti» dice Leonard Steinhorn, docente di Comuni­cazioni e Storia all’American University.

Vera leggenda della boxe, Johnson aveva conquistato il titolo nel 1908, un affronto per la mistica di una discipli­na al tempo considerata         privi­legio dei bianchi. Ma forse il peccato più grande il pugile lo commise il 4 luglio 1910, umiliando sul ring James Jef­fries, la cosiddetta «Grande speranza bianca», che dichiarò di aver accettato il combattimento, dopo averlo accu­ratamente evitato per anni, «con il solo scopo di di­mostrare che un bianco è meglio di un negro». L’incon­tro cambiò la sto­ria della boxe americana, da quel momento dominata so­prattutto dai neri e per sem­pre angosciata dalla ricerca della «Great White Hope», fossero Carnera, Marciano o Jake LaMotta.

Spavaldo nello stile di vita, Johnson non nascose mai la sua passione per le donne bianche, molte di loro prosti­tute, due delle quali prese an­che in moglie. Fu proprio una delle sue donne bianche a tradirlo, testimoniando la lo­ro fuga d’amore agli agenti dell’Fbi che tentavano di inca­strarlo. Venne condannato nel 1913 ai sensi del Mann Act, la legge che proibiva di traspor­tare una donna da uno Stato all’altro per «scopi immorali». «In realtà fu perseguitato per aver sconfitto Jeffries e sfidato la morale dell’epoca» dice John McCain.

Dopo la fuga all’estero Johnson decise di tornare negli Usa, consegnandosi alle auto­rità. Fece quasi un anno di car­cere. Venne privato del titolo, che dopo l’uscita di prigione non riuscì mai più a riconqui­stare. Jack Johnson morì in un incidente d’auto nel 1946.

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