ISTANBUL – Da un orribile dossier emerge che il giornalista Jamal Khashoggi probabilmente non è stata l’unica vittima saudita: l’omicidio del giornalista segue la scomparsa di tre principi reali in esilio, mentre la casa reale saudita dà la caccia ai dissidenti all’estero.
Alle 13:14 del 2 ottobre, l’editorialista del Washington Post è entrato nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul ed è svanito dalla faccia della Terra, come se non fosse mai esistito. Ma le ripercussioni sulla sua scomparsa aumentano di giorno in giorno.
È ormai opinione diffusa che Khashoggi sia stato ucciso nell’edificio da un commando saudita di 15 uomini del regime saudita che ha raggiunto Istanbul in aereo quello stesso giorno. Lunedì scorso la polizia e i pm hanno ispezionato il consolato di Istanbul per più di otto ore e il presidente turco Erdogan ha affermato che hanno scoperto della vernice fresca nell’edificio in cui è scomparso Khashoggi.
Gli agenti turchi ritengono sia stato ucciso e smembrato nel consolato. Secondo i report, il governo ha una registrazione audio che ha condiviso come prova con l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Dall’audio sembrerebbe che al giornalista siano state mozzate le dita una a una mentre era ancora vivo.
Ex consigliere della ristretta cerchia al Saud, sovrani del ricchissimo regno del deserto, Khashoggi era andato in esilio negli Stati Uniti ed era diventato feroce critico della politica di Riad. Al Saud lo voleva “fuori gioco”, aveva recentemente dichiarato a un giornalista.
Ci sono riusciti, ma solo fisicamente: la sua immagine ora è su Internet, giornali e tv. La rete televisiva di Stato Al Arabiya ha sostenuto che i 15 sauditi arrivati a Istanbul il giorno della scomparsa di Khashoggi erano turisti.
L’omicidio di Khashoggi con smembramento del corpo con un sega come in Pulp Fiction sembra essere stato ordinato da chi è un amico dell’Occidente. Il principe ereditario Mohammed bin Salman, noto come “MBS”, è stato lodato per quella che viene vista come una “liberalizzazione” del Regno: le donne saudite ora sono autorizzate a guidare, i cinema sono aperti anche a loro.
Eppure dietro quest’apparenza c’è una sgradevole verità: il principale alleato occidentale nel Medio Oriente arabo è a capo di un regime omicida che, nonostante abbia concesso alcune libertà, ha represso gli attivisti per i diritti umani, scrive il Daily Mail.
Intanto il console saudita a Istanbul, Mohammed al-Otaibi, ha lasciato la Turchia per fare ritorno a Riad.
Una fonte anonima saudita citata dal New York Times ha dichiarato che bin Salman aveva dato il via libera all’interrogatorio di Khashoggi. Qualcosa è andato storto e quello che doveva essere un tentativo di riportarlo in Arabia Saudita è finito con la sua morte. L’accusa arriva dopo che, secondo fonti interpellate dalla Cnn, Riad starebbe per ammettere l’omicidio, puntando però il dito contro servizi deviati che avrebbero agito senza l’autorizzazione del governo.
Gran parte delle informazioni sulla scomparsa di Khashoggi proviene da notizie del regime autoritario di Erdogan, che ha un rapporto teso con l’Arabia Saudita per la vicinanza del presidente ai nemici sauditi del Qatar e dell’Iran. Ma le prove circostanziali finora sono convincenti.
Inoltre, l’apparente omicidio di Khashoggi non è che un esempio, anche se estremo, della famiglia al Saud che persegue i dissidenti all’estero. Dal 2015 tre principi reali in esilio sono “scomparsi” dopo aver parlato di corruzione e altri abusi. Il 1° febbraio 2016, a Parigi, Sultan bin Turki, un esponente della numerosa famiglia reale dell’Arabia Saudita, sarebbe dovuto arrivare al Cairo per incontrare suo padre. E’ il terzo principe svanito nel nulla.
Sultan aveva criticato la corruzione e le violazioni dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Prima di partire aveva detto a un amico: “Dovrei venire al Cairo con un aereo della famiglia reale questa settimana. Se non mi vedi vuol dire che mi hanno riportato a Riyadh. Cerca di fare qualcosa”. Il suo aereo, partito da Parigi, non è mai arrivato in Egitto.
Il secondo principe Turki bin Bandar è stato rapito durante un viaggio d’affari in Marocco. Era diventato famoso nel marzo del 2011, quando aveva cominciato a pubblicare su YouTube una serie di video in cui chiedeva riforme politiche nel Paese e nella famiglia reale. Aveva affermato di aver ricevuto lettere dal ministero degli interni saudita in cui lo minacciavano: “Figlio di puttana, ti porteremo indietro come il principe Sultan.” Come a Khashoggi e Sultan, gli era stato poi detto che poteva tornare in Arabia Saudita sano e salvo. Ha rifiutato. Nel luglio del 2015 è scomparso.
Un paio di mesi dopo è stata la vota di Saud bin Saif al-Nasr, scomparso dopo essere salito su un aereo che avrebbe dovuto portarlo a un incontro d’affari in Italia. Acerrimo critico della corruzione saudita, aveva accusato funzionari sauditi e membri della famiglia reale di aver intascato milioni di dollari in fondi destinati al governo egiziano, e sosteneva le richieste di rimozione del re saudita e dell’allora principe ereditario, Muhammad bin Nayef.
Da Riad non poteva essere accettato. Secondo gli amici, un “consorzio di imprese italo-russo” ha proposto un accordo. Prese un volo privato Milano-Roma che invece lo portò a Riad, dove lo aspettava la cella di una prigione.
Un rapporto delle Nazioni Unite sulle carceri saudite condotto da Ben Emmerson, avvocato inglese, dichiara che “sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman, l’Arabia Saudita sta subendo la più spietata delle repressioni contro il dissenso politico che il Paese abbia vissuto in decenni”.