“Getta in mare il più negro”: sacrificio umano al mare? Forse razzismo anche tra i “migranti”

LAMPEDUSA – “Gettati in mare per placare le onde”. S’intitola così un pezzo pubblicato oggi su La Stampa. Un articolo, a firma di Francesco Grignetti, che racconta di un episodio drammatico avvenuto in uno dei tanti viaggi della disperazione che ogni giorno si ripetono tra le coste libiche e quelle italiane. “Io non so perché è successo… Era buio, la barca piena di gente, le onde alte… A un certo punto il comandante ha cominciato a urlare, e indicava questo e quello… Li hanno presi e li hanno buttati in mare… Tutti gridavamo… Non so perché è successo, forse perché il comandante voleva calmare il mare. E poi siamo andati avanti…”. Una storia di riti tribali e di antiche credenze che arrivano a concepire e realizzare sacrifici umani per placare il mare ostile. Una chiave di lettura, un’interpretazione data alla vicenda più dal cronista che dai testimoni. La realtà dei fatti potrebbe però anche essere un’altra, e cioè che c’è sempre qualcuno più meridionale, più “negro” di noi. C’è sempre qualcuno da disprezzare perché più terrone, più povero o più nero, c’è sempre qualcuno da considerare più in basso nella scala umana, il razzismo è solo una questione di prospettiva.

Questi cosiddetti “viaggi della speranza” seguono rotte e percorsi più o meno fissi: partenza da Tripoli o dalla Libia in genere, destinazione Lampedusa. Le carrette del mare sono i soliti barconi riattati per l’occasione e stipati di povera gente in fuga dall’Africa subsahariana. Gente nera di pelle, molto più nera dei magrebini, molto più nera dei libici che noi siamo abituati a considerare neri. E come tra i bianchi il razzismo si indirizza nei confronti di quelli un po’ più scuri, senza tener conto delle sfumature di colore, così i “poco neri” disprezzano e sono razzisti nei confronti di quelli più neri di loro. E’ così da sempre ma oggi li considerano carne da macello e li spremono più che possono, ora che il regime è agli sgoccioli, sui barconi gli scafisti, i «passeur», ne stipano più che possono. Il barcone del viaggio in questione non faceva certo eccezione. In quella traversata, quello che hanno visto molti testimoni, è la scena del comandante che sbraita, urla e si capisce che ha paura, che da un momento in poi identifica in alcuni disgraziati dalla pelle nera il suo problema più grave e decide quindi di gettarli in mare.

Il sacrificio per placare il mare e ingraziarsi il suo dio è una lettura interessante dei fatti ma forse un po’ magica. La realtà sembra essere molto più prosaica. La traversata è difficile, i problemi sono innumerevoli e in più ci si mette anche il mare. Il comando della nave, se così si può definirla, è in mano a un ristretto gruppo di libici, meno neri e meno disperati della maggior parte dei passeggeri, che di fronte alle difficoltà identifica nei più deboli il capro espiatorio. Niente magia quindi, niente riti esoterici o antiche credenze, ma solo moderno e antico allo stesso tempo razzismo, applicato semplicemente ad un gradino più basso di un’ipotetica scala umana di miseria.

Come i “padani” definiscono terroni i meridionali allo stesso modo sono visti dai cugini svizzeri un po’ più a Nord. E la stessa scena si ripete sulle coste d’Africa, coloro che sono le vittime del razzismo in Italia sono a loro volta razzisti nei confronti dei loro vicini più meridionali e più neri. Dall’essere sempre a Sud di qualcuno l’uomo dovrebbe e potrebbe trarre insegnamento per non ergersi a giudice o a “categoria superiore”, ma non lo fa. E questa storia ne è la testimonianza. Il nemico del povero è il più povero, così sino all’ultimo gradino della scala sociale umana.

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