ROMA – “Ho partorito in catene. Mia forse non potrà mai camminare”. Meriam Yehya Ibrahim teme per il futuro della sua famiglia e ha paura per le condizioni di salute di sua figlia Maya, partorita il 27 maggio mentre si trovava nel carcere di Khartoum, condannata a morte per apostasia e a essere frustata per adulterio. Una condanna poi annullata dalla Corte d’Appello, che ha riconosciuto innocente Meriam Yehya Ibrahim.
A esprimere le sue paure è la stessa donna sudanese, 27 anni e due figli, che per sposare il marito Daniel Wani, originario del Sud Sudan, si è convertita dall’Islam al cristianesimo e per questo ha rischiato la vita. Nella sua prima intervista dopo la scarcerazione, rilasciata alla Cnn, Meriam racconta di aver “partorito incatenata. Non avevo le manette, ma catene alle gambe. Non potevo aprirle per far nascere la bambina”. Per questo “non so se in futuro avrà bisogno di aiuto per camminare o no”.
In merito alle ultime accuse sui suoi documenti di viaggio, la donna si chiede: “Come potevano essere sbagliati? Li ha emessi un’ambasciata. Erano corretti al 100 per cento ed erano stati approvati dagli ambasciatori del Sud Sudan e degli Stati Uniti”. Dopo il nuovo rilascio, giovedì, la donna è stata trasferita insieme al marito e ai due figli presso l’ambasciata di Washington a Khartoum. L’uomo ha anche cittadinanza americana oltre che sudanese. Ora si trova invece in un nuovo luogo segreto. “E’ un posto sicuro, ma non confortevole”, ha detto alla Cnn.