Benvenuti a Nanjiecun, dove il tempo si è fermato in nome del maoismo

NANJIECUN – Esiste un villaggio in Cina che i flussi del mercato e la liberalizzazione non hanno ancora toccato, un posto dove il socialismo collettivista regna ancora incontrastato. A Nanjiecun, nella regione centrale del paese, non esistono i grattacieli e gli sconfinati centri commerciali che hanno cambiato il volto della Cina, come non esistono tutti i corollari del rampante capitalismo cinese, dai cartelloni pubblicitari, ai negozi che vomitano musica techno a tutte le ore, ai mendicanti per strada, ai venditori porta a porta. Andare a Nanjiecun vuol dire tornare indietro nel tempo e anche entrare in una bolla d’aria, fatta della materia del sogno socialista. Qui non esiste nemmeno il denaro.

Wang Hongbin, 60 anni, capo di quest’ultima collettività socialista, è un uomo col volto solcato dalle rughe. Sollecitato dal New York Times, Hongbin ha accettato di guidare il giornalista americano Edward Wong nel villaggio. Ogni visita che si rispetti comincia dalla Piazza Rossa, versione in miniatura e più kitsch dell’omonima piazza russa. Qui, svetta una statua colossale, dieci metri di altezza, di Mao Tse-tung. Lo proteggono ai suoi fianchi, moderni angeli custodi, due soldati, che, dandosi il cambio, non cessano la guardia a nessun’ora del giorno e della notte. Intorno al timoniere, non manca nessuna figura del pantheon o presepe comunista. Marx, Engels, Lenin e perfino Stalin sono tutti qui, a guardare dall’alto i passanti e i ciclisti che attraversano la piazza rossa.

Non è solo il panorama, lo skyline, ad essere impregnato dell’immaginario rosso, anche la vita della città è ritmata dalle canzoni e degli inni comunisti. Ogni giorno i cittadini si svegliano mentre gli altoparlanti intonano il classico inno «L’Oriente è Rosso». La pausa pranzo è il momento di «Navigare sul mare dipende dal Timoniere», una lode a Mao, e la fine del lavoro è segnata dal «Il socialismo è buono».

L’economia collettivista di Nanjiecun dipende in buona parte dal lavoro di Wang, da 34 anni capo della sezione locale del partito. E’ sotto la sua guida che il villaggio ha potuto aggrapparsi ad una visione rossa e retrò della Cina, proprio mentre il resto del paese si faceva attrarre dalle sirene del libero mercato e della ricchezza individuale. La collettivizzazione è cominciata nel 1986 per contrastare l’abbassamento dei salari.

«Allora ci siamo chiesti – dice Wang – che tipo di pensiero poteva guidare la nostra praticata. Abbiamo concluso che era il pensiero di Mao Tse-tung.» Il risultato è che oggi a Nanjiecun il governo possiede tutte le proprietà e le imprese e che i 3400 residenti stabili del villaggio ricevono gratuitamente educazione, assistenza sanitaria, nonché alloggio in grigi appartamenti di stile sovietico.

Eppure, non è un segreto per nessuno che Nanjiecun è un esperimento costoso, se non fallimentare. Southern Metropolis, uno dei giornali cinesi più rispettati, ha rivelato tre anni fa che la collettività aveva collezionato debiti per 250 milioni di dollari e che il modello socialista era reso possibile solo dai prestiti bancari accordati grazie al favore di alti funzionari del partito. E poi, si sa, nessun sistema utopico è perfetto e dove tutti sono uguali nella teoria, qualcuno è sempre più uguali degli altri nella pratica.

Quando il giornalista del New York Times lascia l’ufficio del funzionario, gli chiede se lui e la sua famiglia vivono in uno dei caseggiati collettivi. La risposta è no, Wang ha una casa propria. «Quanti cittadini hanno una casa?» replica il giornalista. «Solo io » – risponde Wang, con un sorriso.

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