Obama: la “mafia di Chicago” e le attese dell’America

« Questo governo è riuscito a dividere i propri amici e ad unire i nemici ». La frase, pronunciata da Steve Clemons, direttore dell’American Strategy Programme, si applica facilmente a tutti i governi della sinistra italiana, ma è rivolta nella fattispecie all’amministrazione Obama.

Già nel numero di ieri Blitz si era occupato della disillusione crescente che circonda l’operato di Barack Obama. Sono numerosi gli scogli su cui, fino ad oggi, l’azione del presidente americano si è incagliata. Dopo tanti annunci, attese, discorsi storici il presidente della speranza è dovuto scendere a pesantissimi compromessi su diversi progetti. In primo luogo la riforma della salute, fortemente ridimensionata dalla caparbietà dei repubblicani.

Inoltre, malgrado le indignate parole di Obama, le banche e gli istituti finanziari hanno continuato a versare compensi faraonici ai loro trader; Guantanamo ha continuato ad essere la prigione senza legge che conosciamo; il Medio Oriente ha continuato ad essere la terra insanguinata e senza futuro che è sempre stata.

Si è accentuata così l’impressione che Obama fino ad oggi sia stato grande solo in un campo, quello del’arte oratoria (in grazia della quale, senza troppa retorica, i giurati norvegesi hanno ammesso di avergli assegnato il Nobel).

E dire che erano tanti quelli che avevano visto l’avvento di Obama come un momento messianico. Tutto indicava un repentino, epocale capovolgimento. Perfino i nomi in codice affibbiati dai servizi segreti a Barack e Michelle adombravano quasi una renovatio imperii (pure se in salsa americana): per lui un eclatante « Renegade », per lei un più sobrio « Renaissance ».

Gossip a parte, il problema dell’efficienza di Obama resta in primo piano ed è sempre più presente nelle colonne dei giornali e nell’opinione pubblica. Se il problema è unanimemente riconosciuto, lo è, sorprendentemente, perfino la soluzione. La colpa di tanti passi falsi di questa amministrazione risiede a detta di tutti nel team di consiglieri scelti dal presidente americano.

A quanto si dice, Obama fa veramente affidamento solo su cinque persone, quattro delle quali provengono dalla sua militanza a Chicago. Si tratta di Rahm Emanuel, capo dello staff della Casa Bianca, David Axelrod e Jarret, i suoi consiglieri politici, e infine, Michelle, la consorte. Il quinto del gruppetto è Robert Gibbs, il suo portavoce, originario dell’Alabama. Il presidente li consulta su ogni argomento, perfino la guerra in Afghanistan. La data dell’inizio del ritiro delle truppe sono stati loro a suggerirla. Quando gli alti ufficiali hanno compreso il loro peso nella politica bellica americana li hanno bollati « mafia di Chicago ».

« Il problema – afferma Doug Wilder, una voce autorevole, il primo governatore afroamericano – è che non hanno abbastanza esperienza nel governare a livello esecutivo. Ma il problema peggiore è che non stanno ascoltando la gente ».

Obama e i suoi rischiano senz’altro di non aver capito un dato: che l’entusiasmo che li ha portati alla vittoria non era solo una credenziale in bianco per un’agenda liberale. In fondo, l’America resta un paese pragmatico. Quello che poi conta – più di Guantanamo, più del Medio Oriente, più di qualsiasi altra cosa – è il lavoro.

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