Sono donne in una comunità tradizionalista come quella araba. Sono palestinesi in uno stato, Israele, dove spesso vengono sottorappresentati. Sono omosessuali in una società, quella palestinese, che ritiene “haram” (proibito) il loro orientamento. Per venire incontro alle necessità della comunità lesbica e gay palestinese, in Israele come nei Territori, è nato in questi giorni un telefono amico che parla arabo.
Un servizio inedito che «non è importante solo per l’idioma», ha spiegato all’Ansa Radir, coordinatrice di Aswat, organizzazione con sede a Haifa impegnata per i diritti delle donne omosessuali arabe che assieme all’Associazione per la Diversità sessuale nella società palestinese di Gerusalemme (Alqaws) ha promosso questa nuova help-line. «Finora mancava un supporto che potesse rispondere alle esigenze di gay e lesbiche che vivono in un contesto culturale e sociale molto diverso da quello israeliano», ha continuato Radir raccontando la sua esperienza: «Quando ero adolescente e m’interrogavo sulla mia sessualità non c’era nessuno in grado di aiutarmi».
L’omosessualità, all’interno della società palestinese, resta un argomento tabu. «Non meno di un 10% degli arabi che vivono in Israele e nei Territori è gay», stando alle stime di Radir, ma di norma «viene escluso e discriminato». Il telefono amico, che funziona grazie ad alcuni volontari, è attivo per ora solo il mercoledì e si rivolge «soprattutto a coloro che non possono raggiungere le sedi delle associazioni Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e trans)».
«Stiamo cercando di pubblicizzarlo il più possibile, ma non è facile – ha concluso la giovane attivista -, la speranza è che l’informazione e il nostro sostegno aiutino a creare in futuro anche nuovi volontari».
I commenti sono chiusi.