La storia di Reza, il bimbo con il biberon vuoto simbolo della tragedia in Pakistan

Pubblicato il 7 Settembre 2010 - 12:57 OLTRE 6 MESI FA

La foto dei bambini (scattata da Mohammad Sajja dell’agenzia Ap) mentre succhiano da un biberon vuoto e con le mosche che fanno da contorno sul viso ha fatto il giro del mondo. Al dolore della devastazione provocato dalle inondazioni, che hanno colpito il Pakistan, si aggiunge la rabbia, nel vedere i più piccoli ridotti in condizioni disperate, e il senso di impotenza. Chi guarda la foto sa che gli aiuti umanitari lì nel paese dell’alluvione non riescono ad arrivare.

Il Guardian è riuscito a identificare il bambino, simbolo ormai della tragedia, e a raccontare la sua storia. Si chiama Reza Khan ha 2 anni e vive in un campo di fortuna nelle strade di Azakhel, a circa 19 km da Peshawar.

Il campo è un ammasso di due dozzine di tende donate da diverse organizzazioni umanitarie, ma non è gestito da nessuno. Chi abita lì deve provvedere a se stesso da solo. Sono abbandonati, costretti a chiedere la carità. Ci sono circa 19 famiglie, tutti rifugiati afgani, prima sfollati a causa del conflitto poi spostati di nuovo a causa del diluvio.

La famiglia di Reza proviene da Butkhak, vicino alla capitale afghana, Kabul. Il Guardian racconta che quando è stato trovato il bambino era in una tenda con la madre, Fatima, e sei dei suoi sette fratelli. Il piccolo era rannicchiato in un angolo su una coperta blu, stesa sul pavimento ancora sporco  di fango. Nelle  sue mani stringeva lo stesso biberon della foto. Lo stesso biberon vuoto.

Niente pappa per Reza e il suo gemello Mahmoud. Entrambi piangono, si lamentano per la fame. La sorellina più grande, 9 anni, Sayma con i suoi occhi verdi guarda nel vuoto, non si cura dei pianti dei fratellini. Non parla e sembra completamente dissociata dal suo ambiente. All’appello manca Aslam, la figlia di 7 anni, che è stata portata in ospedale dal padre per una infezione della pelle.

La tenda è in condizioni igenico-sanitarie pietose: il tanfo di rifiuti umani e animali si mescola con l’aria calda e umida. Poche pentole e poco cibo, ma  tante mosche e zanzare. “Non hanno avuto niente da mangiare oggi. Non ho niente da mangiare”. Ripete Fatima mentre cerca di allontanare le mosche dai suoi figli.

Questa famiglia di dieci persone era tra i 23.000 residenti del campo di rifugiati afgani di Azakhel. Aslam si guadagnava da vivere vendendo galline su una bicicletta sgangherata. Raggranellava due dollari al giorno. La casetta di mattoni di fango in cui abitavano non ha resistito alla furia del fiume Kabul.

Il clan familiare, una sessantina di persone, si è diretto verso la strada che collega Nowshera a Peshawar. Ha trascorso cinque giorni in un campo, mangiando quello che si riusciva a trovare. “Siamo costretti ad arrangiarci per procurarci da mangiare, il cibo non viene distribuito da nessuna organizzazione nelle nostre tende,” dice Fatima, amareggiata.

I bambini mangiano una volta al giorno, di solito la sera, grazie alle organizzazioni umanitarie che forniscono pasti iftar durante il Ramadan. Ma il Ramadan finisce questa settimana. “Vorrei solo chiedere al mondo di farci arrivare qualcosa da mangiare”, implora la donna. Guardate – dice, indicando i gemellini che tiene sulle ginocchia – vi prego, i nostri bambini stanno morendo di fame”.