Vittorio Arrigoni, udienza lampo del processo: la famiglia resta fuori

GAZA -Il taglio squadrato della barba, da monaci-guerrieri dell'Islam radicale, e' lo stesso per quasi tutti: imputati, giudici, rappresentanti della pubblica accusa, avvocati della difesa. Protagonisti oggi, a Gaza, della prima udienza – un'udienza lampo – del processo per l'uccisione di Vittorio Arrigoni, il volontario italiano votato anima e corpo alla causa palestinese, rapito e strangolato a meta' aprile nell'enclave controllata da Hamas per mano di una cellula di presunta matrice salafita ultraintegralista.

Uno strano processo, istruito in semiclandestinita', e venuto alla luce un po' per caso, nell'apparente sorpresa delle stesse autorita' locali. Un processo che ha preso l'abbrivio stamattina in uno stanzone del polveroso edificio che fu in passato sede d'un asilo patrocinato dalla sorella del defunto rais Yasser Arafat e che adesso ospita invece il 'tribunale militare' di Hamas. Ma che e' stato stato subito aggiornato al 22 settembre, a causa della mancata notifica alla difesa di un cd con le presunte confessioni degli imputati.

Uno solo, alla fine, l' atto significativo del giovane e barbuto presidente della corte: la non ammissione dell'avvocato Eyal al-Alami – responsabile legale del Palestinan Centre for Human Rights (Phcr) – incaricato del patrocinio della famiglia Arrigoni. Rimasta unica voce ufficiale dei parenti della vittima, dopo il fallito tentativo di un legale italiano, Gilberto Pagani, di raggiungere Gaza via Egitto, Alami s'e' fatto avanti in apertura con una procura autenticata e la richiesta d'avere accesso all'intero fascicolo. Ma l'istanza e' stata respinta: le corti militari, quaggiu', non prevedono costituzioni di parti civili.

Piu' anziano di una ventina d'anni dei suoi interlocutori, e irrimediabilmente diverso da loro, con i baffi alla Nasser in voga nella sinistra laica palestinese d'un tempo, l'avvocato dei diritti umani si e' dovuto ritirare in buon ordine e accomodare in veste di semplice 'osservatore' fra il pubblico, al di la' d'una balaustra. Dall'altro lato della barricata, all'ombra di un leggio con un Corano aperto disposto sotto il banco della presidenza, sono rimasti gli attori riconosciuti: giudici, procuratori (inclusa una donna velata), difensori. E i quattro imputati, entrati nella gabbia loro riservata come cloni poco piu' che ventenni: gravi dietro le barbe nere, uno sgranando il rosario delle 99 sure, ma tutti capaci a tratti di ridacchiare con i familiari presenti, senza emozione ne' traccia di rimorso.

I loro nomi sono stati letti dal presidente. Sono Mohamed Salfiti, Tamer Hasasnah, Khader Gharami e Aamer Abu-Ghula. Salfiti e Hasasnah sono accusati d'aver partecipato direttamente al delitto (furono catturati nel corso di un blitz in cui vennero uccisi i loro presunti complici principali, un giordano e un altro palestinese), mentre Ghula e Gharami sono indicati come fiancheggiatori. Il tribunale militare sara' il loro destino poiche' risultano tutti a libro paga delle istituzioni di sicurezza locali: Salfiti e Hasasnah addirittura nei ranghi della polizia, Gharami e Ghula in quelli dei pompieri. I primi due – ma in teoria anche agli altri – rischiano fino alla condanna a morte (fucilazione o forca), come ha confermato ai giornalisti il procuratore militare capo Ahmed Atallah, fattezze da predicatore islamico celate in modo bizzaro sotto un basco militare color verde smeraldo. Uno dei difensori, Mohamed Zaqut, si dice convinto che possa finire proprio cosi' e che Hamas miri in fondo a un giudizio sommario ed esemplare, senza troppi approfondimenti, contro questi figli 'deviazionisti'. L'ultima parola sull'eventuale esecuzione sara' affidata d'altronde alla politica e al governo di fatto di Gaza. Alla famiglia Arrigoni, ha ribadito Atallah, resta il diritto di chiedere che eventuali pene capitali vengano commutate nel carcere. Anche se non sara' semplice esercitarlo restando al di fuori del processo. Fra gli amici di Gaza di Vittorio domina lo scetticismo.

''L'impressione della prima udienza e' quella di una sceneggiata, in cui giustizia e procedure legali fanno solo da contorno'', taglia corto all'uscita Andrea al-Doni, avvocato italo-palestinese. ''Non so cosa dire – fa eco Ebaa Riziq, amica per la pelle di Vittorio, presente coraggiosamente in aula a capo scoperto e con il motto della vittima, 'Restiamo umani', tatuato sui polsi – i sorrisi degli imputati mi hanno ispirato disgusto''. ''Ma soprattutto – aggiunge – non mi fido di questo processo. Temo sia tutto gia' deciso a priori''.

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