Una mattina, la prima, ti svegli e leggi in prima pagina (tra le prime cinque dell’home page) di una “denuncia shock”. Shock, così la battezza e titola il quotidiano che la pubblicizza. E in effetti a leggerla e a vederla dipanarsi (la notizia è a più stadi e proseguirà nel suo lancio e messa in orbita per tre giorni filati, e non è detto sia esaurita la sua spinta propulsiva) la denuncia lascia davvero un po’ stupiti. Lo shock o almeno lo stupore è nella mastodontica sproporzione tra l’annuncio (e conseguente titolazione e prosa dei testi) di una sorta di Metoo aziendale in atto ad Acea e il resoconto fattuale di soprusi e maltrattamenti di genere.
Le sevizie di genere (riservate solo alle donne) perpetrate niente meno che dalla cuspide del vertice aziendale, cioè Fabrizio Palermo, sono, alla prima mattina di quello che alla seconda puntata il quotidiano definisce “scandalo” , “ci fa stare sempre in piedi” e/o “pretende di essere servito” e ancora “donne sminuite a serve” e ancora a concludere “modalità da terzo mondo”. Effettivamente un pizzico di shock viene nel leggere come l’articolista definisca queste che avete appena letto “accuse piuttosto pesanti”. Accuse pesanti non far sedere le hostess (di questa e non altra mansione si tratta), non voler l’acqua del tè riscaldata al microonde, pretendere di essere servito da chi è addetto al servizio? Però, però c’è la pistola fumante: la denuncia si arricchisce di un capo di imputazione!
Il campanello, ci chiama col campanello! Il quotidiano trova la cosa forma di lavoro schiavile e con coraggio documentario e tenacia investigativa va a realizzare video dove compare e suona lo schiavista campanello, che campanello non è. E’ un cicalino, il video lo fa anche suonare, a riprova del trattamento degradante. Un cicalino per chiamare da una stanza all’altra. Quale esempio di evidente malevola persecuzione e disprezzo delle maestranze? Chissà in redazione al quotidiano come reciprocamente si chiamano da una stanza all’altra, con voce altissima ma rispettosa, con whatsapp, con cartelli politicamente corretti, con bigliettini e fattorini? Una volta lo si faceva con degli interfono, ai tempi dell’invasivo, molesto, autoritario, opprimente…Nel video del campanello comunque un po’ di shock permane, per quanto è ridicolo. E per quanto ridicolmente ottusa sia la pervicacia nel presentarlo come prova a conferma dello “scandalo”.
Al secondo e terzo giorno seconda e terza puntata, dove la denunciante espone il suo strazio “volevo morire”. E dove si misura con precisione l’emergente “razzismo maschilista”. Infatti la mela doveva essere portata dalle hostess al dirigente niente meno che sbucciata! Quale evidente e sfacciato rifiuto di assumersi mansioni a lui dovute, quale sfacciato relegare e schiacciare le donne in ruoli subalterni e umilianti, quale sopruso di “razzismo maschilista” nel pretendere le addette al servizio facciano i servizi cui sono addette! E che disumanità, neanche scambiare con le hostess considerazioni sull’andamento aziendale, sugli andamenti di mercato dell’energia o sulla Meloni o sulla Roma o la Lazio o il prezzo delle zucchine…Niente, solo la gelida ed escludente richiesta di fare l’hostess. Nessuna inclusività, quindi palese discriminazione di genere. Splendidamente riassunta nell’acme della denuncia: “Ci trattava male”.
Resoconti e testimonianze attestano questo sì, di un capo scontroso, pignolo e fissato. Fissato con il rumore dei tacchi da attutire e cancellare con sotto tacchi di gomma. Pignolo nel voler scrivanie del personale sgombre di qualsiasi cosa non fosse attinente al lavoro, neanche le foto dei familiari o la bottiglietta d’acqua. Non proprio un amore di capo dunque. Al netto della costante per cui quasi ovunque il capo ai dipendenti appare come brutto soggetto e simmetricamente al capo i dipendenti appaiono come soggetti sfuggenti…al lavoro. Ma come e per quali vie un sub contezioso da scrivanie e un malumore da corridoio e pausa caffè diviene un racconto da Metoo?
Dunque se le parole hanno un senso e una misura (non bisogna contarci troppo, spesso l’hanno perduto e non per responsabilità delle parole stesse) ai piani alti di Acea non usa essere troppo empatici con le hostess, non si dà e concede troppa confidenza, non si è amichevoli e compagnoni e ci si fa servire dalle addette al servizio secondo i propri gusti. Come possa avvenire che quel che secondo parole della “denuncia” è al massimo sgarberia diventi nel resoconto e campagna giornalistica un metoo aziendale nutrito di “razzismo maschilista” è questione questa sì che intriga. A pensar male…
Altro quotidiano si incuriosisce e fornisce seguente pista: al suo arrivo in azienda l’accusato aveva bloccato, fatto sfumare appalto di milioni di euro per organizzazione, gestione e sviluppo servizi aziendali. Non proprio un farsi amici tra le maestranze del comparto. Hai visto mai qualcuno se la sia legata al dito? Ma si può pensar male anche volando più basso: son tempi in cui se denunci il capo non rischi la miseria o il posto di lavoro, rischi una carriera da influencer e un posto nella compagnia di giro dei talk-show. E comunque ti togli lo sfizio del dispetto/rappresaglia se il capo è stato scortese: essere Cobas di se stessi si può e si fa.
Per far partire un motore ci vuole una scintilla, per far girare un motore ci vuole un carburante, la funzione di scintilla e carburante in questa vicenda l’assolve una delle purtroppo numerose intollerabili tolleranze che incistano e innervano la nostra vita sociale. Una volta (ma non secoli fa) la enuncia anonima veniva cestinata, il suo luogo di destinazione era il cestino. Perché la denuncia anonima non solo non è verificabile (volendo si può tentare di verificarla), la denuncia anonima è peggio: è spesso e volentieri veicolo di rancore e dispetto ed è spesso e volentieri parte essenziale di progetto di attacco e demolizione. La denuncia anonima è grumo e coagulo che non puoi sciogliere per vedere che c’è dentro e cosa dentro vi circola. Per questo nelle redazioni la denuncia anonima aveva come destinazione finale il cestino. Ora invece la denuncia anonima la si sbatte in prima pagina. La denuncia anonima entra dunque nella famiglia delle post verità, delle verità alternative e delle super verità. Ed è una intollerabile tolleranza verso il meno e il peggio, l’irresponsabile e l’inadeguato, il nocivo e il presuntuosismo militante nella attività non di hostess ma di comunicatori/informatori non di rado giornalisti immaginari.
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