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Cervelli in fuga? Non è una novità, 50 anni fa un giovane cronista scriveva: A Genova i laureati devono emigrare

Cervelli in fuga? Non è una novità. Mezzo secolo fa un giovane cronista scriveva sulla Stampa di Torino: “A Genova I laureati devono emigrare Non riescono a trovare un’occupazione adeguata in Liguria”.
Nemo profeta in patria, una lamentela vecchia come il mondo che oggi è diventata acuta perché in tanti preferiscono le comodità della tanto deprecata vita in Italia ai tormenti dell’adattamento a un paese straniero (o anche solo un’altra regione). Salvo poi integrarsi talmente nel nuovo ambiente, più ricco e evoluto di quello d’origine, da non voler più tornare in patria. Vedi gli italiani e i turchi emigrati in Germania, in Belgio, in Inghilterra.
“Ma se the penso” commuove ma pochi tornano dalla diaspora. Prevale il sentimento di “la porti un bacione a Firenze”.
L’articolo della Stampa e del 7 agosto 1971. Eccolo.
A Genova i laureati devono emigrare Su duemila giovani che, ogni anno, diventano «dottori» in Liguria, soltanto centocinquanta riescono a trovare un posto di lavoro nella regione – La « fuga dei cervelli » verso Milano e Torino. E a andare al Nord non erano ragazzi poveri ma rampolli di famiglie ricche e benestanti.
Liguria difficile per i « dottori »: più di duemila giovani, l’anno scorso, si sono laureati, ma solo 150 hanno trovato lavoro in aziende della loro regione.
Per gli altri, la scelta: emigrare a Milano e a Torino, oppure adattarsi al ruolo di sottoccupati a casa. Chi non emigra tira avanti aiutando a fare i conti di un albergo o dividendosi tra l’insegnamento (come supplenti o in scuole private) al mattino e un’attività semiprofessionale al pomeriggio. AU’Ilres (Istituto ligure di ricerche economiche e sociali), cui si devono questi dati, parlano di «inevitabile fuga di cervelli» e di «effettivo depauperamento di capitale umano».
Nelle aziende liguri ci sono circa cinquemila «dottori» (dal conto sono esclusi gli insegnanti e i liberi professionisti), il 60 per cento dei quali presso le società Iri. Solo metà, secondo 1 calcoli dell’Ilres, sono liguri. Nell’anno accademico 1964-1965 l’Università di Genova ha distribuito 1117 lauree: nel ’69-’70 si è passati a 1957. Una trentina sono gli imperiesi che hanno frequentato l’Ateneo di Torino, un centinaio gli spezzini che hanno studiato a Pisa o Firenze.
Il totale per la regione supera cosi quota duemila. Secondo la Camera di commercio, negli «ultimi dieci anni i laureati sono aumentati ad un ritmo quattro volte superiore a quello della popolazione complessiva».
Conferma l’Unione Camere di commercio liguri: «Le possibilità di lavoro non sono state tali da soddisfare la domanda e a tutt’oggi la situazione ambientale, economicamente piuttosto statica, della regione, non lascia intravedere come possa essere risolto il problema dell’inserimento dei giovani laureati nelle strutture della produzione».
Ne nasce uno squilibrio tra domanda e offerta che dà vita, dicono all’Ilres, a fenomeni «preoccupanti»: «Un crescente esodo di energie qualificate verso altre regioni»; «Un utilizzo distorto e un sottoutilizzo che producono frustrazione e spreco delle risorse umane disponibili».
Nelle condizioni più difficili si trovano i laureati delle facoltà «classiche»; Giurisprudenza, Scienze politiche. Economia e Commercio, Lettere e, soprattutto, Magistero, che, in cinque anni di autentico boom, ha visto aumentare i suoi iscritti del 94 per cento.
Ma anche gli ingegneri non stanno meglio: l’università di Genova ne sforna oltre 250 all’anno, esattamente 100 in più di tutti i laureati che l’industria locale può assorbire. Posti e prospettive di carriera ci sono, ma a Torino, a Milano, nelle industrie in espansione della Val Padana o presso i nuovi impianti installati al Sud.
Chi non vuole lasciare la famiglia e il clima più favorevole della Riviera, deve arrangiarsi: «Incarichi e supplenze nelle scuole, al mattino, arredare le seconde case dei milanesi e dei torinesi al pomeriggio», dice una giovane ricercatrice dell’Ilres, che da alcuni anni segue il problema. Ma ora per le supplenze la situazione comincia a farsi difficile: le graduatorie sono su scala nazionale, e la Riviera, a parità di posto e di stipendio, è più appetibile di una città di provincia, nebbiosa e piovosa.
Anche per i periti, 1 ragionieri, i geometri e gli altri diplomati le cifre sono in ascesa vertiginosa: il loro numero è quasi raddoppiato in dieci anni e così «le dimensioni aggravano il problema».
Il reddito elevato è solo una causa: «A Genova, zona di antica tradizione industriale, il vecchio operaio che lascia la fabbrica dopo trent’anni dì lavoro compiuto in condizioni ben peggiori di quelle di oggi, tutto farebbe fare a suo figlio tranne che seguire la stessa strada».
«Per molti, aggiunge un ricercatore, il diploma è un simbolo di stato sociale: meglio ripetere dieci volte una classe che fare l’operaio». Nelle fabbriche gli specialisti scarseggiano. I muri della città sono coperti di manifesti che invitano a frequentare corsi di qualificazione, con prospettive allettanti.
Nelle industrie genovesi gli operai specializzati e qualificati sono complessivamente il 65,7 per cento, contro il 55,2 di Milano e il 43,6 di Torino. «La richiesta di personale qualificato da parte delle aziende liguri è superiore alla media nazionale. Ed è un problema che non si risolve con l’emigrazione».
Marco Benedetto

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