“Da gangster a suora, le mille vite di Angela Corradi che dopo il bandito Vallanzasca incontrò Dio” è il titolo di un appassionante articolo di Piero Colaprico su Repubblica. Angela Corradi è morta all’etè di 73 anni, quasi contemporaneamente all’uscita dal carcere di Renato Vallanzasca per gravi ragioni di salute.
Scrive Colaprico: un mese prima di quando, nel settembre 2024, dopo aver trascorso complessivamente 52 anni su 74 finora vissuti in carcere, Renato Vallanzasca fosse trasferito dal penitenziario milanese di Bollate a una RSA a causa di una grave forma di decadimento cognitivo è morta lei, la pupa della banda, Angela Corradi, non più gangster ma monaca. Aveva 73 anni. I funerali sono stati celebrati nella chiesa di Santa Giustina ad Affori.
Il Giorno la ricorda così. Nata e cresciuta nell’allora disgregato quartiere di Affori in una famiglia circense, divenne ex modella e poi gangster, arrestata e condannata, dopo il carcere si è convertita a Dio ed è diventata una suora laica.
Raccontò la sua conversione al Meeting di Rimini nel 1983, in un tripudio di applausi dei ciellini presenti. “Quando il Signore è venuto da me – disse – non avevo nessuna intenzione di cambiare. Sono in casa, sto cercando di uscire e sono armata; i soli progetti che ho sono progetti di uccidere e il Signore mi si presenta. Non la sua immagine, ma la sua voce, per intero. Come ho fatto a sapere che era Dio? L’ho saputo e basta”.
La vita da gangster di Angela Corradi insieme alla Banda della Comasina
Per i giornali era “la pupa della banda Vallanzasca”, per il bel Renè una “sorellina” e il braccio destro, per Vito Pesce una compagna.
Approdò nella banda dei gangster della mala milanese per un “atto di ribellione”, tanto da tatuarsi sulla schiena una svastica e su un dito la “N” di nazista con una croce sovrapposta.
Contro Francis Turatello e il Tebano Epaminonda, Vallanzasca e compagni incarnarono la banda della Comasina di cui Angela prese il posto dell’unica donna tra i rapinatori più conosciuti degli anni settanta.
Una donna in grado di mettere in riga le teste calde del gruppo, secondo Vallanzasca “una forza della natura e una femmina da sballo”, l’Angelina era “bella, intelligente, simpatica, capace di essere dolcissima. Ma quando si trattava di dimostrare carattere e coraggio, pure l’uomo con cui stava faceva bene a non contraddirla. Troppo giusta”.
La conversione di Angela Corradi
Poi però, senza preavviso, Corradi conosce Dio, “non la sua immagine, ma la sua voce, per intero. Come ho fatto a sapere che era Dio? L’ho saputo e basta”, ha raccontato dal palco del Meeting di Comunione e Liberazione nell’agosto del 1983.
E da quel momento decide di cambiare la direzione della sua vita e delle sue giornate, tutte rivolte verso i più deboli: il suo impegno per i drogati e soprattutto per i detenuti riuscirono a far parlare più delle indagini sul suo conto.
“Dire che il carcere è un inferno è semplicistico. Paradossalmente l’universo carcerario è il luogo più vicino alla speranza, perché lì l’uomo è ridotto alla domanda su di sé, lì è lo scheletro della dignità, totalmente indifeso”, racconta Suor Angela dal palco del Meeting, lei che a San Vittore era stata reclusa cinque anni “vuota, arida e persa”.
Su Repubblica Piero Colaprico approfondisce. Avere vent’anni o poco più nella Milano degli anni ’70 e schierarsi da criminale contro lo Stato e contro la polizia. Se non si parte da quel clima, è difficile raccontare una figura assurdamente lineare come quella di Angela Corradi, detta Angela della Svastica,
La metropoli era allora attraversata dalla violenza politica degli “Anni di piombo”, aveva visto nel 1974 l’arresto del capomafia Luciano Liggio in via Ripamonti e Francesco Turatello, detto Francis Faccia d’Angelo, era salito in vetta alla Milano nera: era il boss, l’amico sotterraneo di politici e il nemico esplicito di chiunque osasse ostacolare il suo cammino dorato.
Come avevano tentato di fare Renato Vallanzasca, detto il bel René, e il suo mucchio selvaggio, “la banda della Comasina”.
Angela Corradi non stava al quartiere Comasina, ma in una delle case di ringhiera di via Osculati, quartiere di Affori. Un po’ più verso il centro, sulla stessa direttrice, in via Imbonati, abitava Antonio Colia, detto Pinella, ovverosia Jolly: il vincente del gruppo, il vero cervello.
Nel loro giro era imprescindibile “Nanu”, un ex parà della Folgore: Rossano Cochis. Più una decina di altri gangster, tra i quali il giovanissimo Tino Stefanini e il più (relativamente) anziano Vito Pesce. Vallanzasca, che stava di casa a Lambrate, tra tutti era il più “glamour”.
La banda, abituata a un non sporadico uso di stupefacenti, si era votata alle rapine alle banche e agli uffici postali: “Ma quale organizzazione? Noi andavamo in giro in auto e se vedevamo una filiale buona, entravamo con le armi in pugno”, ha raccontato Cochis al cronista, aggiungendo un dettaglio rivelatore: “Renato diceva che con me armato davanti, lui in mezzo e Pinella dietro a coprire le spalle, potevamo portare a termine qualsiasi azione”.
È in questo contesto testosteronico che approda Angela: alta, magra, folle, dura. Un bel naso. Uno sguardo inquietante. Guida la macchina, porta le armi, spara con il mitra.
Chissà perché tra tutti i banditi lei, che raccontava di essere stata modella, sceglie di mettersi con il più basso di statura e il più strano, quel Vito Pesce che nelle strade aveva fama da killer e che poi, durante la detenzione, sceglierà di fare lo scopino (le pulizie) nel carcere di san Vittore. Angela condivide con la banda covi, notti, ruberie e assalti.
C’è dietro le quinte quando la banda, nel 1974 in piazza Vetra, assalta un’agenzia di riscossione delle tasse e non arretra quando c’è da sparare: e là muoiono, cadendo uno sull’altro, un poliziotto e un gangster.
E Angela in prima persona compare durante varie rapine, sino all’ultima sparatoria che coinvolge Vallanzasca, quella della fuga fallita da San Vittore (aprile 1980), che riesce — per poche ore di libertà — solo al più carismatico della banda, Colia-Pinella.
Ferito a un gluteo, Vallanzasca era stato catturato subito: e — attenzione — sempre dentro quel carcere aveva celebrato il suo matrimonio con la sua amica d’infanzia Antonella D’Agostino con rito civile il 5 maggio 2008 nel carcere di Rebibbia, a Roma.
Vallanzasca si era sposato una prima volta nel 1979 con la diciottenne Giuliana Brusa, conosciuta in via epistolare. Il matrimonio non fu mai consumato, fino al divorzio nel 1990.
Testimone di nozze, dopo tanto odio e tante sparatorie tra bische e night, era stato l’odiato-temuto Francis Turatello, fotografato durante la cerimonia con camicia aperta e catenone d’oro al collo: anche lui con la svastica al posto del Crocefisso.
Il matrimonio è stato sciolto nel 2018.
Con Renato in carcere e, pare, non più lucido; Cochis annegato durante una nuotata sul Gargano; Colia schiantato in moto contro un palo; Pesce che campicchia in un campo nomadi, Angela era sopravvissuta a un microcosmo che — purtroppo per le tante vittime che ci hanno avuto a che fare — coniugava crimine e delirio.
Da donna d’azione qual era, ha sempre tenuto la bocca chiusa, anche quando, con “i Vallanzasca” dissolti tra morti e celle, restò solitaria, infelice e povera, com’era stata da ragazzina, figlia di un acrobata paralizzato e di una ex circense diventata colf.
Nell’84 era scampata a un ultimo agguato. Chissà: di certo la sua auto era stata bucata dai proiettili e lei aveva già raccontato di aver udito — letteralmente — la voce di Dio.
Le diceva: “Io ci sono”.
Era così diventata una suora laica e assicurava di occuparsi di derelitti. Se molti esseri umani pensano di essere un mistero, “suor” Angela (mai preso i voti) lo era di sicuro.
Sul Corriere del Ticino la recensione di Dario Campione del libro di Renato Vallanzasca Malanotte. Rimpiango quasi tutto, scritto con Micaela Palmieri e pubblicato da Baldini & Castoldi.
Renato Vallanzasca, il bandito dagli occhi di ghiaccio, il personaggio forse più violento della mala milanese degli anni ’70, l’uomo protagonista di libri, film e serie Tv dedicati alle imprese sanguinarie e alle fughe rocambolesche che gli sono costate quattro ergastoli, affronta oggi l’ultima, più dura battaglia della sua vita.
A 74 anni, 52 dei quali trascorsi in carcere, Vallanzasca non è più in grado di comprendere pienamente ciò che gli accade e di gestire consapevolmente la sua vita. Deve fare i conti con una grave malattia neurodegenerativa che lo mette in uno stato di confusione e di sfinimento.
Già nello scorso mese di giugno, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, aveva revocato il divieto di semilibertà (ribadito ancora nel 2011, nello stesso giorno in cui era morta la madre 94enne del bandito molto legata al figlio, la quale aveva anche scritto al presidente Napolitano per chiederne la grazia) per le aggravate condizioni di salute del bandito.
Adesso, lo stesso Tribunale si è pronunciato sulla richiesta di trasferimento di Vallanzasca in una residenza sanitaria assistita.
Impietosa la relazione stilata all’inizio di settembre dall’ambulatorio di psichiatria del servizio di medicina penitenziaria, la quale mostra quanto il personaggio Vallanzasca (alimentato da lui stesso anche durante la detenzione-record, ma al contempo sfruttato da non pochi attorno a lui da quando non c’è più con la testa) non abbia ormai più nulla a che vedere con la persona Vallanzasca, più simile a tanti altri anziani minati da decadimento cognitivo: «Ha perso completamente il controllo» della propria quotidianità, scrivono i medici, «non è assolutamente in grado di badare» a sé, «è disorientato nel tempo e nello spazio», «a tratti emerge la sofferenza di non riuscire a esprimere con il linguaggio quello che si produce nel suo pensiero», ed è ormai «visibile lo stato di prostrazione».
Un uomo finito. Del quale, tuttavia, resiste – per certi aspetti anche in maniera forte – l’inossidabile mitologia del fuorilegge, la fascinazione del criminale. Figlie di una vera e propria «agiografia degli uomini con il mitra» da cui però, è stato giustamente sottolineato, sono assenti il dolore delle vittime e la crudezza di quegli anni di morti e violenze. Perché gli anni ’70, a Milano, non furono i tempi gloriosi di una malavita «con regole e codici d’onore», ma anni in cui si sparava, e si moriva per niente.
Negli spiragli di lucidità che la malattia tiene aperti, Renato Vallanzasca ha raccontato nuovamente spezzoni della propria vita alla giornalista del Tg1 Rai Micaela Palmieri. Ne è nato un libro di memorie molto diverso dai soliti. Scorrevole, costellato più di riflessioni che di ricordi, per nulla autocelebrativo. «La Storia parla da sola – dice Vallanzasca – non ho capito un cazzo. Ho sempre giocato d’azzardo, sempre. Non con le carte o nelle bische da cui mi tenevo ben lontano ma, peggio, con la vita. E ho perso».
Il titolo del libro, Malanotte, edito da Baldini & Castoldi, ha una postilla: Rimpiango quasi tutto. Non c’è, nelle pagine della vita di Vallanzasca, alcuna rivendicazione dei propri errori. Al contrario: la vicenda umana del bandito è intrisa quasi esclusivamente di dolore. È narrata nel tono del dramma e la sua grandezza somiglia più a un abisso dal quale è impossibile risalire.