Enea è il nome di un neonato con tutta la cura possibile abbandonato. Non suoni stridente l’abbandonato con cura. Con cura, ma abbandonato dalla mamma. Mamma che lo ha lasciato, furtiva, ad una clinica milanese. Con cura, con la cura in forma di lettera di accompagno-addio dove si legge il nome che la madre gli ha assegnato, la precisazione dell’essere nato in ospedale e quindi tutelandone la salute alla nascita. E ancora si legge di un amore materno affermato ma non vissuto. Un cuore di mamma che dice di battere e confessa e accetta pure di non battere come tale per gli anni a venire, per gli anni della vita di Enea. Abbandonato, con cura. Ma abbandonato. Per la vita. Quanti sono gli Enea, le neonate e i neonati abbandonati ogni anno in Italia?
Dicono i registri e la contabilità dei neonati abbandonati (quelli appunto registrati) ogni anno in Italia che la conta arriva a circa tremila. Viene in mente che i neonati tutti in Italia lo scorso anno sono stati 393 mila. Pochi, pochissimi, sempre meno. Appena pochi decenni fa erano circa il triplo a nascere ogni anno in Italia. Dunque 393 mila i nati in un anno, tremila in un anno gli abbandonati appena nati: alla grossa uno su cento o poco meno. Il numero totale, in cifra assoluta, colpisce meno che in percentuale. Tremila è una folla che, più ha le dimensioni di folla, più è indistinta. Uno su cento consente di guardare a distanza, per così dire umana, più ravvicinata. Tremila è cifra che suggerisce non ne incontreremo o non ne sapremo mai direttamente nulla di uno/a di loro. Tremila è cifra che rimanda a cose degli altri. Uno su cento è pensiero che potrebbe capitarti relativamente vicino, tra i cento conoscenti, amici, parenti.
Tremila è cifra astratta, accettabile. Uno su cento comincia ad essere raffigurabile, immaginabile, straziante. Aggiungono i registri che due volte su tre i neonati abbandonati sono figli di mamme italiane (per chi mai pensasse che una mamma italiana non può). Gli studi e il buon senso segnalano entrambi come sia imprudente e presuntuoso cercare e fornire il “perché” una mamma rifiuta o rinuncia alla vita con il figlio o la figlia. Gravidanze non volute, gravidanze troppo grandi per l’età di chi la vive, pochi soldi, povertà culturale e rifiuto, calcolo e scelta di non farsi carico si sommano e talvolta si mescolano tra loro l’uno a sostenere l’altro. Senza dimenticare i maschi che non vogliono fuggono dal diventare, dall’essere padri per davvero. Tolti i casi di ingenuità che pur ci sono, lo fanno per viltà umana e civile. Non di rado grottescamente vestita di “machismo”.
La clinica che ha accolto Enea fa doverosamente opportunamente sapere (molti lo ignorano) che la legge consente in Italia di partorire con le garanzie sanitarie e l’assistenza della Sanità pubblica e senza dover riconoscere legalmente il neonato, garantito anche l’anonimato della neo mamma. Non c’è alcun bisogno o motivo, neanche il più distorto, per nascondersi al parto, per nascondere il parto e la nascita del figlio/figlia che non si vuole o si ritiene di non poter tenere e allevare. Una legge di civiltà e di umanità. Che però opera per così dire a valle, dopo che la scelta di abbandonare è stata fatta. Cosa ci sia a monte, di cosa sia fatta la scelta di abbandonare non c’è sonda sociologica o psicologica che arrivi tanto in fondo. Sta lì, a monte. E uno su cento è cifra che, a volerla contare e pesare, impedisce pensare siano piccoli e radicati sassolini che vengono giù per gravità umana. Uno su cento è un masso.
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