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Fecondazione assistita, Consulta: “Consenso dell’uomo non può essere revocato”

Un uomo non può revocare il suo consenso dopo la fecondazione avvenuta con la procreazione medicalmente assistita. Lo stabilisce la Corte Costituzionale, esprimendosi sul caso di una coppia che era ricorsa alla pma e si era in seguito separata, prima che l’embrione venisse impiantato nell’utero. La donna aveva comunque chiesto di procedere, ma il marito aveva revocato il suo consenso. Ora però la Consulta stabilisce che una volta avvenuta la fecondazione, questo non sia più ritrattabile.

Non può revocare il consenso dopo la fecondazione

La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità della previsione che, nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, stabilisce la irrevocabilità del consenso dell’uomo dopo la fecondazione dell’ovulo. La sentenza n. 161 del 2023 (redattore Luca Antonini) ha ritenuto non fondata la questione sollevata, giudicando non irragionevole il bilanciamento operato dal legislatore nel censurato art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004.

Tale norma rende possibile, per effetto della crioconservazione, la richiesta dell’impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l’originario progetto di coppia. Infatti, nel caso del giudizio a quo la donna aveva richiesto l’impianto dell’embrione crioconservato, nonostante nel frattempo fosse intervenuta la separazione dal coniuge. Questo si è opposto ritirando il consenso precedentemente prestato, ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre. Il giudice ha quindi sollevato la questione di costituzionalità in riferimento alla suddetta norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso.

La sentenza della Corte Costituzionale

La vicenda da cui ha avuto origine il pronunciamento della Consulta risale al 2017. Una coppia aveva acconsentito alla crioconservazione dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione in modo da permettere una biopsia embrionale in vista dell’impianto. Che però era dovuto slittare a causa delle condizioni di salute della donna, che aveva dovuto sottoporsi a una terapia che le consentisse di avere tutte le carte in regola per poter proseguire con l’impianto. Nel 2018, però, i due si erano lasciati e nel 2019 erano arrivati a una separazione consensuale. L’anno successivo, nel 2020, la donna aveva chiesto alla struttura di procedere comunque con l’impianto, ma l’uomo dopo aver domandando la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso alla procreazione medicalmente assistita.

La Consulta, però, ha stabilito che “se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella pma, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre”. Per queste ragioni i giudici costituzionali hanno stabilito che, considerando sia la tutela “della salute fisica e psichica della madre” che “la dignità dell’embrione”, non è irragionevole comprimere la libertà di autodeterminazione dell’uomo.

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FIlippo Limoncelli

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