Genova, memorie del ponte Morandi. Con la testa china in avanti ha confessao davanti ai giudici del processo, dopo averlo fatto con quelli dell’inchiesta.
Ha confessato quello che tutti sapevamo, che l’indagine aveva da tempo chiarito e che stava sospeso su quel ponte maledetto come i fulmini di quel giorno maledetto del 14 agosto 2014.
Mion Gianni, 79 anni, ex ad di Edizione, la holding dei Benetton, anzi uomo di maggiore fiducia di quella famiglia, che sarà sempre segnata dalla tragedia genovese, con quella faccia distrutta da reo colpevole che porta sulle spalle un macigno, ha dato al processo per il crollo del Morandi una svolta che non poteva non arrivare in questa dimensione non solo giudiziaria, ma anche emotiva, quasi storica.
Lui con quell’aria sperduta davanti ai giornalisti dopo la deposizione, il colletto aperto, il sacco sulle spalle, ha detto che da otto anni prima del crollo e della tragedia e dei 43 morti, che potevano essere molti di più e potevo esserci io, e potevi esserci tu e potevamo esserci tutti noi, su quel ponte che crollava, “sapevano”.
Sapevano e nascondevano e autocertificavano la sicurezza di un viadotto che da un momento all’altro poteva crollare per quel difetto di costruzione. Sapevano, autocertificavano e non manutevano, come avrebbero dovuto, ancor di più di quello che sapevamo.
E ora questa confessione, che arriva quattro anni, otto mesi e nove giorni dopo il crollo del ponte di Genova, al culmine di un processo difficile, dopo un’inchiesta tra le più complicate della recente storia giudiziaria, sembra come una lapide manzoniana in questa vicenda, che ci ha lacerato senza tregua, che ha messo questa città di fronte a una tragedia di incalcolabile portata.
“Mi sarei sparato alla testa il giorno del crollo”, ha raccontato Mion, descrivendo il suo stato d’animo e spiegando quel suo silenzio lungo appunto quattro anni, otto mesi e nove giorni .
E come ha vissuto ogni giorno e ogni notte, da quel momento da quella riunione che ora sembra di vederla, con lui con il più responsabile di tutti, Giovanni Comanducci, con Gilberto Benetton, quello della famiglia che più “voleva” il business autostrade, con Riccardo Mollo, il responsabile delle manutenzioni, con gli altri, che si giravano dall’altra parte.
Come ha vissuto dopo la tragedia, dopo il giorno in cui voleva spararsi in testa, come ha vissuto quando i suoi “padroni” incassavano i nove miliardi della concessione restituita allo Stato?
Davvero viene in mente Manzoni e il suo capolavoro dei “Promessi Sposi”. Non è il Manzoni della Colonna infame che servirebbe a Genova, né quello di di Fra’ Cristoforo, ma quello del cardinale Federigo, quando inchioda alle sue responsabilità e alla sua ignavia Don Abbondio. E lo sventurato non rispose.
Eccola l’immagine che richiama quella deposizione choc di Gianni Mion. E lo sventurato non rispose….Non disse una parola, chiese solo come si certificava la sicurezza del ponte e si accontentò della risposta che se lo autocertificavano da soli.
La giustizia deve fare il suo corso, il processo deve andare avanti con i suoi riti, le sue regole, i suoi tempi, che, ahimè, rischiano di renderlo perfino in parte vano.
Una sentenza deve arrivare e giustizia deve essere fatta e i colpevoli devono essere trovati e condannati, uno per uno nella misura delle loro responsabilità.
Ma in qualche modo è come se il processo fosse finito con la confessione di Mion, che è già un verdetto anticipato, un grido anche se lui l’ha lanciato a voce bassa, capo chino.
Quel crollo era annunciato. Sapevano, tacevano e sventurati non rispondevano.
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