La nave affonda proprio davanti al porto di Genova, una tragedia del mare di mezzo secolo fa, che ricorda su scala maggiore (ben 20 morti contro 6) il naufragio del super yacht Bayesian in Sicilia.
In entrambi i casi la negligenza degli equipaggi ignari degli avvenimenti del meteo sono stati decisivi. La differenza è nel numero dei morti, 20 a Genova, 6 in Sicilia, e nella loro qualità sociale, marittimi e mogli qua, miliardari e mogli là, tutti stranieri.
Il racconto di Filiberto Dani, gran cronista, sulla prima pagina della Stampa di Torino del 10 aprile 1970, cui fa eco un altro grande giornalista, Mario Fazio sono degni di Conrad e un reporter in erba, Marco Benedetto.
Era un mare capace di travolgere qualunque cosa: la foto di allora fa ancora paura. Si deve aggiungere un alto livello di disorganizzazione a bordo della nave e scarsità di mezzi a terra sembrano essere le cause principali del naufragio della turbonave inglese « London Valour», schiantata dai marosi contro la scogliera frangiflutti della diga foranea del porto di Genova.
Una tragedia quasi unica nella storia della marina moderna, compiutasi sotto gli occhi di decine di migliaia di persone, che, col cuore in gola, hanno seguito minuto per minuto l’agonia della nave da poche centinaia di metri.
Il pesante bilancio del naufragio quale si profilava ieri notte ha trovato conferma stamattina: tredici i cadaveri ripescati, sette gli uomini ancora mancanti all’appello, ma per loro ormai non si nutrono più speranze.
Il totale delle vittime, quindi, viene fatto ascendere, secondo gli ultimi calcoli, a venti persone: sei ufficiali inglesi, due donne e dodici marinai indiani e pakistani. Tra le vittime, il comandante, Davis Muir e la moglie, il marconista Edward Hill e la moglie.
Le due donne avevano raggiunto i rispettivi mariti il 21 marzo a Savona, da dove la nave aveva salpato per recarsi in Russia a caricare il minerale di ferro destinato all’Italsider di Cornigliano.
La « London Valour », una ex petroliera costruita nel 1956 e trasformata in bulk carrier (cisterna porta minerali) tre anni fa, 15.875 tonnellate di stazza lorda, 23 mila tonnellate di carico nelle stive, è giunta in vista di Genova il ‘ 7 aprile.
Non c’era posto al molo dell’Italsider e la nave ha dovuto perciò dare l’ancora al largo a circa un miglio dalla costa. Per due giorni il tempo è splendido, c’è calma di vento, il mare è percorso soltanto da onde modeste.
D’improvviso, nella notte fra mercoledì e giovedì, radio Genova trasmette, alle ore 0,30 di Greenwich, corrispondenti in Italia all’una e mezzo del mattino, un primo «avviso di burrasca» sulle coste del Tirreno centrale: alle 7 del mattino (ora di Greenwich, pari alle 8 italiane) uh secondo avvertimento: «Burrasca in corso da sud-ovest, forza sette, Mar Ligure e alto e medio Tirreno ».
Un avviso di allarme, diffuso sia in italiano sia in inglese e ripetuto per tutta la mattinata, che avrebbe dovuto mettere sul chi va là le navi in rada, specialmente la « London Valour » che, dotata d’un motore azionato a turbina, non sarebbe potuta ripartire in pochi minuti: la turbina fredda richiede, infatti, quattro ore prima d’entrare in funzione: in fase di preriscaldamento abbisogna d’un paio d’ore.
Non è stato possibile raccogliere testimonianze precise al riguardo, ma il primo ufficiale Robert Kitchener, ora ricoverato all’ospedale, ha lasciato capire che le macchine non erano in condizioni di muoversi all’istante. Perché? « No. comment » è stata la risposta dell’ufficiale.
C’era qualcuno di guardia alla radio? Anche questa domanda resterà senza risposta: il marconista è scomparso tra i flutti, ma è ragionevole supporre che non ci fosse. Altrimenti avrebbe captato, all’una del pomeriggio (mezzogiorno di Greenwich), il bollettino diffuso da Malta in lingua inglese: «Mare in direzione di nord-ovest, tra forza cinque e sei, localmente con forza d’uragano ».
Un messaggio agghiacciante, riletto oggi a ventiquattr’ore di distanza, quando ormai il mare s’è calmato ed è tornato un sole da primavera, che fa apparire assurda, irreale, la carcassa della nave semiaffondata sulla scogliera della diga foranea: spuntano gli alberi, la sommità del ponte di comando e la prua.
L’orologio segna le 14. A bordo quasi tutti sono a dormire o stanno per andarci: il mare, ormai a forza sette, è percorso da « onde lunghe », quelle che i tecnici chiamano « morte », perché provengono da un punto distante, dove invece imperversa il vento: un altro segnale dell’avvicinarsi della tempesta, ma sulla « London Valour » nessuno sembra preoccuparsene.
Stando alle testimonianze raccolte, è proprio la forza del mare a fare sganciare l’ancora dal fondale; a spingere la nave alla deriva provvede il vento, che alle 14 raggiunge la modesta velocità di nove chilometri all’ora, ma che alle 14,10 (ne fanno fede i diagrammi registrati all’ufficio marittimo del porto) soffia già con raffiche di 36 chilometri e, dieci minuti più tardi, di 60 chilometri.
Ci sono altre quattro navi alla fonda fuori del porto: « Osvego Liberty.», « Petrol Sade », a Maurice » e « Likavitos »; una per una queste riescono ad allontanarsi prima che sia troppo tardi.
Ma la « Osvego » lo fa solo « in extremis »: la forza del vento la spinge fino a cento metri dalla diga: ancora una cinquantina di metri e la nave si incaglierebbe come la « London Valour » sulla scogliera frangiflutti.
Vincenzo Crea, capo semaforista, segue con i binocoli dal suo posto di osservazione, sulla lanterna, il dramma della nave inglese: « Appena ho visto il tempo peggiorare — ha detto poi — ho telefonato all’ufficio marittimo. Erano circa le 14: mi hanno risposto di avere già diffuso per radio V ” avviso di tempesta”.
Ad un certo momento vedo che la catena dell’ancora della “London Valour” è tesa: segno che ara, cioè non fa più presa sul fondo. Scarrocciando, la nave va verso la diga foranea.
Richiamo l’ufficio marittimo e apprendo che sono già usciti i rimorchiatori. Continuo ad osservare, aspetto inutilmente che dalla nave facciano qualche segnale. Il ponte di comando è deserto ».
E’ una circostanza gravissima, se vera, perché quando la nave è alla fonda fuori di un porto, deve considerarsi come in navigazione; quindi deve conservare la guardia alla radio e sul ponte, proprio come in mare aperto.
Il comandante del porto di Genova, gen. Francesco Carfì, è a tavola, alle 14,10, quando un amico che abita in corso Italia, sul lungomare, gli telefona dicendogli che dalla finestra ha visto la nave andare alla. deriva.
Subito il generale telefona al maggiore Carlo Lay, comandante della sezione operativa della Capitaneria e nel giro di pochi minuti la motovedetta «CP 233», con dieci uomini a bordo e agli ordini del comandante Arturo Telmon, esce in mare aperto.
Nel frattempo partono anche quattro rimorchiatori. « Hanno cercato — dice il capitano Giovanni Raimondo, comandante dei piloti del porto — di agganciarsi alla “London Valour” con dei cavi; ma non si sono potuti avvicinare troppo, per non finire contro le fiancate della nave. La scogliera era ormai vicina: un paio di minuti, poi, con rumore sordo, la ” London Valour ” vi si è incagliata ».
E’ a questo punto che comincia la seconda fase del dramma, quella che più da vicino investe la nostra organizzazione.
E’ una domanda che angoscia tutti a Genova, oggi: è possibile che venti uomini periscano all’imboccatura del secondo porto del Mediterraneo, nel 1970? Molteplici le cause che hanno dato al naufragio del « London Valour » le dimensioni di una tragedia quasi senza precedenti:
1) Il panico che si è diffuso nell’equipaggio. A bordo c’erano 58 persone: diciassette ufficiali inglesi, due donne e trentanove marittimi indiani e pakistani. Sembra che dieci di costoro non sapessero nuotare. Gente reclutata al mercato nero della manodopera, pagata ai limiti delle tariffe internazionali (circa 25 mila lire al mese), paralizzata dalla paura. « Abbiamo lanciato loro una sagola — racconta un nostromo che ha partecipato alle operazioni di soccorso sulla diga foranea — e poi gli abbiamo fatto segno di andarla a fissare sull’albero. Uno si è arrampicato per un po’, poi è sceso, e tutti a farcì segno di no con le mani e le braccia». Da bordo intanto, molti si erano gettati in mare.
2) Le teleferiche. La prima è stata attuata grazie ad una sagola «sparata» dalla nave alla diga: vi si sono calati tre uomini, poi vi è morta la moglie del comandante. Il cavo, invece che essere fissato ad un albero della nave, era assicurato in coperta; durante una delle tante oscillazioni, un’ondata ha scaraventato la sventurata donna contro la scogliera; da terra hanno lanciato un paio di sagole, ma una si è impigliata nell’antenna.
Sanatoria fiscale 2025: stop al taglio dei debiti. Bocciato un emendamento a favore dei contribuenti…
Nei talk show nostrani, Maurizio Landini a parte, l'argomento del giorno è il mandato di…
La foto del giorno, scelta per voi da Blitz Quotidiano, mostra un gruppo di persone…
Il vicepremier Salvini esprime riserve, fino alla minaccia di non votarla, sulla Commissione europea, giunta…
Martina De Ioannon è una delle troniste di Uomini e Donne, giovanissima ma molto grintosa,…
Un famoso negozio di abbigliamento cinese, l'ITIB di Hangzhou, ha deciso di presentare la sua…