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La vita in carcere di Matteo Messina Denaro: i libri, poca tv, gli interventi e gli incontri con i magistrati

Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio scorso dopo 30 anni di latitanza, è morto nell’ospedale de l’Aquila dove era ricoverato, in una stanza blindata, da agosto. Messina Denaro, 62 anni, era malato da tre anni di tumore al colon.

L’arresto di Matteo Messina Denaro

Nel supercarcere dell’Aquila è entrato poche ore dopo l’arresto. La Procura di Palermo ha subito chiesto e ottenuto per lui il 41 bis.

Dal blitz dei carabinieri del Ros, scattato poco prima che il capomafia, malato di cancro, si sottoponesse sotto falsa identità alla chemioterapia in una clinica di Palermo, sono trascorsi quasi nove mesi. Oggi con la sua morte, ormai da settimane in condizioni gravissime e da venerdì in coma irreversibile, è calato il sipario sulla storia dell’ultimo stragista di Cosa Nostra.

La vita de detenuto

Nella sua vita da detenuto, come altri padrini prima di lui, Messina Denaro ha avuto una condotta impeccabile. Letture, poca tv, le terapie, somministrate in una infermeria ricavata accanto alla cella, quale allenamento nei primi tempi, le lettere e le visite della figlia naturale, Lorenza, riconosciuta solo pochi giorni prima della morte. Quando è apparso evidente che a Messina Denaro restava poco da vivere sono stati autorizzati incontri con i suoi più stretti familiari. Il peggiorare dello stato di salute e due interventi chirurgici hanno poi imposto la sospensione della chemio e la scelta della terapia del dolore. In cella l’ex latitante non è più tornato.

Negli ultimi giorni col suo consenso il boss è stato sedato e, rispettando le volontà espresse nel suo testamento biologico, gli sono state staccate le macchine che lo tenevano in vita alla presenza del suo difensore, nominato tutore legale.

Gli incontri con i magistrati

I magistrati, in questi mesi di detenzione, l’ex latitante li ha incontrati tre volte accettando di rispondere alle domande del procuratore Maurizio de Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido, dei pm Gianluca de Leo e Piero Padova e a quelle del gip Alfredo Montalto. “Io non mi pento”, ha messo in chiaro da subito ammettendo solo quel che non poteva negare, come il possesso della pistola trovata nel covo, e negando tutto il resto: l’appartenenza a Cosa Nostra, gli omicidi, specie quello del piccolo Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e ucciso, le stragi, i traffici di droga. “Stavo bene di famiglia”, ha spiegato ribadendo che comunque dei suoi beni, tutti ancora da trovare, non avrebbe parlato. “Se non mi fossi ammalato non mi avreste preso”, ha detto sfottente ai pm spiegando che è stato il cancro a fargli abbassare le difese e a portarli sulle sue tracce.

Gianluca Pace

Laureato in Storia contemporanea, a Blitz quotidiano dal 2011. Qui mi occupo, si fa per dire, di quel che accade in questa misera Italia e nei dintorni. Con queste poche righe dovrei mettere in risalto, con un po’ di ironia e senza farlo notare troppo, le mie poche qualità. Ma insomma, alla fine che ci frega?

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