Due o tre cose bisogna pur dirle sull’omicidio del sedicenne di Pescara massacrato in un parco da due coetanei per un debito di droga. Un’ora dopo il delitto – una vera e propria spedizione punitiva – gli assassini se ne sono andati al mare, hanno fatto un bagno e un selfie, hanno posato in spiaggia per festeggiare la missione compiuta; pugno chiuso e orgoglio fieramente esibito. Il tutto consegnato al proprio smartphone in una domenica pomeriggio di orrore e sadismo che ha sorpreso e choccato un Paese pur abituato ad episodi sconcertanti e traumatizzanti.
Ma l’agguato di Pescara, le ferocia dei due sedicenni accoltellatori (25 pugnalate), il corpo abbandonato tra le sterpaglie vicino ad un sottopasso della ferrovia dopo una “naudita efferatezza” (parole del magistrato), ha consegnato un film di un orrore senza pari. La città di Pescara, tramortita dalla desolante ricostruzione sulla morte di Thomas, ha risposto con una fiaccolata intrisa di dolore e lacrime. Alla veglia hanno partecipato istituzioni e tanti giovani.
Le prime parole del procuratore: “Tragedia frutto di disagio culturale, la musica trap ha un ruolo. Così come l’ansia da social, l’ansia di emergere, di essere i primi, i migliori, i più duri, più forti, più cattivi. I giovanissimi sono sempre connessi, ascoltano trap che chiamarla musica è difficile perché i testi delle canzoni sono istigazioni a delinquere in cui si esaltano la violenza, la droga, la violenza sulle donne, l’uso di armi”. E allora sorgono spontanee alcune riflessioni.
Davanti a quel corpo martoriato c’è una sola cosa da fare: non voltarsi dall’altra parte. Abbiamo il dovere di porci degli interrogativi e di trovare soluzioni. Il dramma di Thomas non riguarda solo lui. Urgono nuovi modelli educativi.
Dicono gli psicologi: “Pensare che quell’omicidio sia solo una storiaccia di periferia, significherebbe fingere di non vedere che esiste una frattura sempre più grande, uno scollamento cruciale tra molti adolescenti e l’età della maturità”
Oggi i genitori dei ragazzi sono molto cambiati rispetto a 20 anni fa, perché si sono formati in un ventennio che, come archetipi, ha avuto arrivismo e individualismo, in cui l’avere ha sempre prevalso sull’essere, in cui il mero benessere materiale è da raggiungere con qualunque mezzo. E ciò influisce sulla visione degli adolescenti verso la realtà che li circonda. Se muore l’essere e prevale l’avere, allora il corpo vince sull’anima e diventa solo uno strumento per arricchirsi, annichilendo qualsiasi senso di umanità. Occorre invertire la rotta. Occorre che i giovani non abbiano tutto: devono riscoprire il senso del desiderare.
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