Nel 1985, all’età di 47 anni, fu sottoposto a una trasfusione di sangue presso il Centro Traumatologico Ortopedico (CTO) di Napoli a causa di una frattura al femore. Quindici anni dopo, scoprì di essere affetto dal virus dell’epatite C, e nel giugno del 2015, dopo atroci sofferenze, morì. I familiari attribuirono l’epatite C a una sacca di sangue infetto utilizzata durante la trasfusione. Questa tesi è stata accolta dalla sezione distaccata di Casoria del Tribunale di Napoli, che ha condannato il Ministero della Salute al pagamento di oltre 171mila euro alla moglie dell’uomo e ai quattro figli della coppia, oltre a ulteriori 195mila euro per danno biologico terminale e danno catastrofale. Complessivamente, più di un milione di euro, oltre alle spese legali sostenute per il supporto professionale dell’avvocato Piervittorio Tione e del consulente tecnico d’ufficio.
La storia di D.L., cittadino di Mugnano di Napoli, inizia con il suo ricovero per una frattura al femore nel 1985, seguita da una trasfusione di sangue presso il CTO, che successivamente si è rivelata infettata dal virus dell’epatite C, secondo la tesi del tribunale. Nel 2000, D.L. scopre di aver contratto il virus epatico e muore all’età di 77 anni a causa di complicazioni legate alla cirrosi epatica. Secondo l’avvocato Piervittorio Tione, i familiari hanno deciso di rivolgersi al tribunale di Napoli per ottenere il risarcimento del danno sotto due profili: il danno “iure hereditario” (i danni fisici e morali trasferiti agli eredi in virtù della morte del soggetto trasfuso) e il danno “iure proprio”, ovvero il danno morale subito dai congiunti più stretti (coniuge e figli) a seguito della traumatica perdita del loro caro.
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