Se è vera, se è integralmente vera, se non è una delle innumerevoli semplificazioni della “rete” della comunicazione (strutturalmente corriva nell’ignorare il complicato e complesso, cioè la natura del reale), allora è la parabola, la prova minima ma perfetta, la cartina di tornasole. la dimostrazione esemplare del come e quanto come comunità non sappiamo, non vogliamo e non possiamo esercitare nessuna repressione, Nemmeno, tanto meno dei comportamenti individuali e di gruppo nocivi all’individuo e alla comunità. Se è integralmente vera è andata così: una dodicenne fotografava se stessa in pose hard, poi inviava gli hot selfie a qualcuno rimasto sconosciuto. La madre della dodicenne se ne accorge e rifila nella lite che ne consegue un violento schiaffo alla figlia, schiaffo che procura piccola ferita con un po’ di sangue alla ragazzina.
Per motivi che le cronache non spiegano ma solo accennano la famiglia è per così dire “attenzionata” dai servizi sociali e quindi i suddetti in qualche modo si attivano. Qui le cronache assumono il passo e il tono dell’incredibile del non plausibile: la madre sarebbe stata “colpevole” di “pressioni” sulla ragazzina perché svolgesse compito di accudimento della casa e dei familiari mentre era “molto spesso fuori”. Fuori, altrove la madre. A far che? “A lavorare”. Questo scrivono, vien da dire impunemente, le cronache. Azzardando parafrasi: qualcuno li perdoni non tanto per ciò che scrivono, quanto per il come lo scrivono.
Comunque lo schiaffo finisce in Tribunale: un Pubblico ministero chiede tre anni tre di reclusione per la mamma, la Corte sentenzia una condanna e una pena di un anno e sette mesi. Acquattata nelle righe di una cronaca, come marginale annotazione, la dichiarazione di un magistrato secondo cui la condanna non è stata per lo schiaffo. Cioè il contrario della universalità dei titoli della “rete”, sia quelli della comunicazione, sia quelli della chiacchiera via social. Allora vera o no? Probabilmente incompleta e imprecisa. E però verosimile. Verosimile perché impastata con gli ingredienti culturali che fanno e compongono quel che, qui e oggi, è il sapere, il volere e il potere della comunità in cui viviamo.
Non sappiamo più reprimere nulla, la stessa parola repressione è diventata sinonimo di oscenità, è turpiloquio sociale. Lo stato di ebbrezza iconoclasta verso ogni simulacro di repressione è tale che di fatto si è lasciato solo l’uso, compulsivo, della parola a Matteo Salvini che ne fa uso e abuso grotteschi. Repressione bandita come peste dalla sociologia, dalla pedagogia, dalla cinematografia, dalle e nelle fiction, dalla demagogia di destra e sinistra…A vantaggio di un nuovo senso comune benedetto da una cultura corriva e opportunista: non si reprime nulla, per definizione. Reprimere è “peccato”, quasi peccato originale.
Perché ogni comportamento individuale e/o di gruppo è di per sé manifestazione di libertà che in quanto tale non tollera e contempla repressione. Oppure ogni comportamento individuale e/o di gruppo è una sorta di risultante ambientale nella quale non c’è responsabilità di scelta e di azione, quindi non vi può essere repressione che sarebbe comunque e sempre arbitraria. Questa sorta di cancel cultur della responsabilità ci ha conquistato, è materia curricolare dalle elementari alla laurea, conosce cattedre e corsi di formazione e specializzazione negli studi tv, nei festival letterari, nelle chiacchiere da bar, nelle chat delle mamme, perfino nelle Curve da stadio. Reprimere? Anche volendo, e non vogliamo, non sappiamo più come farlo. Perfino fosse il caso di “reprimere” una dodicenne che che invia selfie hot.
La comunità (chiamatela il paese, la nazione, la società, la gente…) al fondo e alla sostanza non vuole reprimere niente e nessuno. Ma come? E gli infiniti appelli e proclami a “buttare la chiave” delle celle? E la costante richiesta di massa di pene più severe? E la ricorrente richiesta di “giustizia” in ogni indagine e processo, cioè di condanna? E l’opinione pubblica che diffida di ogni assoluzione e ha quasi compiuto l’equazione, la sovrapposizione tra giustizia e condanna, per cui se non c’è condanna non c’è giustizia? Sì, certo: la comunità non esita nel produrre grida e gestualità addirittura forcaiole.
Ma, attenzione: se il prossimo sa reprimere è per così dire molto prossimo, se appartiene alla famiglia, al clan, alla lobby, a qualcuno o qualcosa prossimi alla propria sfera di interesso e/o “identità”, allora la comunità si fa comprensiva, accudente, iper misericordiosa. La vicinanza del prossimo fa scattare sempre il “che, davvero”? Davvero la sanzione, la reclusione, la repressione? Più prossimo è il prossimo e meno vogliamo possa incorrere davvero in sanzione o repressione. Queste vanno severamente riservato al prossimo che sta più in là, più in là della nostra famiglia, del nostro clan, lobby, territorio, associazione, identità. E, siccome ognuno ha una famiglia, un clan, una lobby, un territorio, una associazione, una identità…Così la voglia matta di repressione ha solo indirizzi lontani e non prossimi a loro volta però presidiati e difesi dai prossimi loro. No, in realtà non solo non sappiamo ma non vogliamo reprimere nulla, nulla se la repressione dovesse mai toccare la sfera del supremo “Noi”.
Consiste nel fatto quantitativo secondo cui se a violare la norma sono decine di milioni è impossibile avere milioni di guardiani della norma? Anche, ma l’impossibilità, qui e oggi, del reprimere riposa su qualcosa di più profondo e solido. Qui e ora la nostra comunità non può reprimere. Nulla, neanche i comportamenti nocivi. E non può perché glielo impedisce e nega una sorta di istinto di sopravvivenza. Qui e ora la nostra comunità vive, sopravvive e prospera nella cultura e nella pratica, nell’uso e costume condiviso della opportunità della elusione e violazione della regola, qualunque essa sia. In economia, in politica, nella stessa logica qualunque regola è vissuta come costrizione, limitazione.
La comunità, suddivisa in specifiche comunità, sempre ritiene cosa buona e giusta sottrarsi e/o violare la regola se questa anche i minima misura contrasta o non esalta e premia la famiglia, il territorio, la lobby, l’associazione, l’identità di specifica appartenenza. La regola vale per una entità astratta e in fondo derisa: quella del cittadino. Noi siamo tutti, per nostra scelta, lavoratori salariati oppure proprietari di immobili o inquilini o partite Iva o commercianti o professionisti o legbtq+ o generali dell’ordine primigenio o ceti disagiati o imprenditori o pacifisti o studenti o….Praticassimo la regola, reprimessimo l’inosservanza della regola, faremmo l’interesse del cittadino. Ma cittadino chi è? Non certo noi. Non possiamo reprimere la violazione delle regole di cittadinanza, reprimeremmo, fatti appena due passi, noi stessi. La sociologia, la politica, la pedagogia e anche la giurisprudenza, come l’intendenza, seguono il grosso dell’esercito.
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