“Né una bomba né un missile, neanche un missile esploso nelle vicinanze della fusoliera, sono la ragione dell’incidente” che provocò la strage di Ustica. A sostenerlo – intervistato da Repubblica – è Carlo Casarosa, professore di Meccanica del volo, ora in pensione, che fece parte del collegio dei periti incaricato dal giudice Rosario Priore di capire quale causa provocò la caduta del Dc9 Itavia la notte del 27 giugno 1980.
L’esperto è sicuro della sua conclusione, nota come tesi della “quasi collisione“, perché “il relitto non mostra tracce compatibili a queste ipotesi. L’aereo si è disintegrato in volo perché superò quello che in gergo si chiama ‘fattore di carico massimo‘, innescato dal distacco dell’estremità dell’ala sinistra”. Cosa può averlo provocato? “L’essere entrato in una scia vorticosa lasciata da un aeroplano che lo precedeva. Questa è la verità ingegneristica, che deriva da calcoli e valutazioni sul relitto”, sostiene Casarosa che, in due anni di lavoro, insieme a due tecnici dell’Alitalia e due studiosi del suo Dipartimento di Ingegneria aerospaziale di Pisa, mise insieme i 4.200 pezzi del Dc9 tirati su dal mare e ricomposti come “un puzzle”.
Nel luglio del 1994 – ricorda Repubblica – vengono consegnati a Priore i tre tomi della perizia, accompagnati da “una nota aggiuntiva” che porta la firma di Casarosa. “Io avevo scritto quei tre volumi. Pochi giorni prima della consegna, però, i coordinatori del collegio – spiega il professore pisano – mi dissero che le conclusioni le avrebbero scritte loro” ma “quando mi mandarono la bozza, scoprii che con una mezza pagina e trentatré parole avevano scartato sia l’ipotesi del missile sia quella della quasi collisione, sostenendo che restasse solo quella della bomba. Scrissero il contrario di quanto sostenevo io”. “Ero sconcertato, – racconta Casarosa – quindi scrissi la famosa nota aggiuntiva, firmata da me e da un altro perito, nella quale inserii la mia conclusione. Che, all’epoca, prima di avere i risultati di analisi fatte in seguito, rimaneva sì in bilico tra quasi collisione e bomba, ma non dava per certo quest’ultima. Test successivi mi hanno convinto, al 100 per 100, della quasi collisione”. Perché i suoi colleghi scrissero conclusioni che contrastavano con il senso del suo lavoro? “Un’idea me la sono fatta” afferma Casarosa, che non dirà nulla in proposito: “neanche sotto tortura”.
Sullo scenario della “quasi collisione”, il professore dice che “qui si entra nel campo dell’ipotesi, perché non ci sono documenti ufficiali. Analizzando le tracce radar, mi sono fatto l’idea che quella sera fosse in corso una missione di trasferimento di un Mig 23 libico di rientro dalla Jugoslavia. L’Italia, da quanto se ne sa, talvolta offriva il passaggio, rendendoli invisibili ai radar tramite avvicinamento ad altri velivoli. Il 27 giugno 1980 c’erano due caccia italiani, si vedono dal radar, che incrociano la rotta del DC9 su Bologna. Poi atterrano a Grosseto, dopo aver lasciato il mig libico davanti al DC9, forse lo precedeva di 3-4 miglia”. Poi, secondo Casarosa, “il Mig libico, i cui resti sono stati ritrovati sulla Sila, per sfuggire all’attacco di intercettori statunitensi F-14 decollati dalla portaerei Saratoga, vira bruscamente verso la Calabria e scende di quota, creando appunto una scia vorticosa dove, dopo poco, entra il DC9”.
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