Terrorismo, l’ombra di Mitterrand protegge gli assassini, gli anni di piombo conto aperto, non si può dimenticare

Da cronista del terrorismo tra Genova-Milano-Torino ho seguito “gli anni di piombo” da vicino, prima addirittura da addetto stampa del Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, all’epoca del sequestro di Mario Sossi.

Il mio nome era stato anche trovato nei covi delle Br, colonna genovese. Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br e sequestratore di Sossi, in una intervista negli anni Novanta, che mi rilasciò oramai libero dal carcere, mi rivelò che se non fosse stato sequestrato Aldo Moro un altro obiettivo era Taviani. I suoi percorsi romani, tra casa e Ministero, erano più facilmente aggredibili di quelli di Andreotti, secondo obiettivo per importanza. Anche io, quindi, avevo rischiato se fossi stato insieme al ministro durante l’azione dei terroristi.

Ecco allora che cosa mi ha suscitato la sentenza della Corte di Cassazione francese che ha negato l’estradizione in Italia ai dieci latitanti italiani.

Per la generazione che ha vissuto da vicino “gli anni di piombo” italiani, anche solo da cronista sul posto, da testimone molto informato sui fatti, la decisione della Cassazione francese è intollerabile.

Abbiamo visto i corpi trapassati dai proiettili di decine di vittime, celebri come Aldo Moro, di tanti magistrati, avvocati, imprenditori o anche semplici poliziotti e carabinieri e sentito le rivendicazioni di quelle operazioni che oggi, personaggi come Adriano Sofri hanno il coraggio di definire “antiche”, per cancellarne la gravità.

Siamo stati ai funerali di decine di quelle vittime, in chiese e piazze piene di dolore, di rabbia anche di impotenza. Abbiamo lavorato spesso al fianco di tante di quelle vittime, che in certi casi sono stati anche nostri colleghi o colpiti a morte, o feriti, comunque processati, minacciati. Come uno dei miei grandi direttori, Indro Montanelli.

Gli inquirenti cercavano di scoprirli, quei terroristi, nascosti dietro le sigle della paura, le Br, Prima linea, i Nap, Azione rivoluzionaria …., di arrestarli di dare a loro un nome e di affermare la giustizia davanti ai loro delitti.

Noi cercavamo di ricostruire chi erano, da dove venivano, perché colpivano, portavano la morte, sparavano per uccidere, per gambizzare, per terrorizzare. All’inizio era un pianeta assolutamente sconosciuto, frange di una estrema sinistra rivoluzionaria, fuoriusciti dal Pci, “secchiani” contrari alla politica del grande partito di Togliatti, esponenti della indefinibile galassia di Autonomia.

Percepivamo quell’odio che le loro azioni testimoniavano, la crescente capacità di colpire senza pietà per le vittime, guidati da una ideologia estrema, da una visione decisa ad abbattere lo Stato borghese, le imprese multinazionali.

Leggevamo le risoluzioni strategiche, i volantini, i documenti deliranti, prodotti da quella intellighentia, cui non sapevamo dare connotati, ampiezza. Ma che continuava a seminare il terrore.

Dalle prime azioni clandestine, dai primi “processi del popolo” alle stragi, al crescente numero di vittime, di cui abbiamo perfino perso la memoria e che ora tornano a galla, quaranta anni dopo. Questo perché dieci militanti di quella galassia terroristica, responsabili condannati in contumacia, rifugiati in Francia, sono certi di restare per sempre al sicuro, nella tana protetta dalla legge francese, dalla applicazione della famosa e contestata dottrina Mitterand.

Non si potevano sconvolgere le loro vite di esuli condannati in Italia, scappati via senza scontare neppure un giorno.

Ricordo, agli albori di quegli anni durissimi, il sequestro improvviso di un capo del personale Ansaldo a Genova, un lampo nel buio, la foto della vittima con la stella a cinque punte. Poi il rilascio dopo 12 ore. Non sapevamo, non immaginavamo cosa sarebbe successo dopo.

Il sequestro di Mario Sossi arrivò in un clima di grandi tensioni, in una città nella quale la contrapposizione ideologica era altissima. Ma non si poteva immaginare quell’azione spregiudicata in mezzo alla città, una serata di aprile, in un quartiere borghese contro un magistrato della Procura.

Quaranta giorni di tensione, il ricatto allo Stato: “O liberate i compagni della XXII Ottobre o lo giustiziamo”. Le istituzioni sotto scacco, la Corte d’Assise d’appello, che accetta in modo condizionato uno scambio che non avverrà mai e che due anni dopo costerà la vita del Procuratore Generale Francesco Coco “giustiziato” l’8 giugno del 1976, insieme ai suoi agenti di scorta, perché aveva bloccato il rilascio della banda Rossi.

Quel giorno alle 1330 di una giornata di sole sfacciato ero in salita santa Brigida, davanti al corpo rovesciato a terra, gli occhiali infranti, di Coco, grande giudice e dei suoi agenti, Giovanni Saponara e Antioco Deiana, che i terroristi avevano ucciso senza pietà.

Vedevo quel sangue versato sulla creuza genovese e incominciavo a capire la sfida che si doveva affrontare.

Dal 1976 di quella prima “firma” sanguinosa al 1982 -1983 della sconfitta finale, attraverso più di trecento morti e migliaia di feriti, quel terrorismo ha bloccato l’Italia in un modo che oggi le nuove generazioni stentano a credere e che vivono solo attraverso gli anniversari dei fatti più eclatanti. L’omicidio di Aldo Moro, i film che ricostruiscono quell’attacco verticale al cuore dello Stato, la fiction tv sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso dalla mafia. Ma anche l’ufficiale dei Carabinieri che riuscì a sconfiggere prima il terrorismo con i suoi corpi speciali.

Erano pochi, ma organizzati e decisi a andare fino in fondo, centinaia, non più di mille, ma con tutto un mondo che li fiancheggiava ambiguamente e molti esponenti del quale oggi hanno fatto carriera e sono diventati importanti personaggi nella politica e nel giornalismo.

E c’erano anche quei dieci che oggi la Francia protegge, grazie a una dottrina elaborata da Mitterand e che i giudici della Cassazione transalpina, con una sentenza, blindano davanti all’ipotesi di una consegna all’Italia perché scontino le pene inflitte nei processi di trenta-quaranta anni fa.

Si sconvolgerebbe la loro vita ricostruita, i loro assetti famigliari radicati a Parigi”, scrivono i magistrati francesi.

E le vite distrutte di tante mogli, figli, genitori se ci sono ancora, delle vittime di questi e di altri terroristi? A loro chi ci pensa?

Nessuno di quei dieci ha mai detto una parola di pentimento, di dissociazione, nessuno ha compiuto gesti nei confronti dei parenti delle loro vittime.

Alla notizia della ultima sentenza, uno di loro, dalla sua cuccia calda in Francia ha detto “Che goduria leggere la sentenza francese!” Non ci sono parole per commentare.

Solo quel Cesare Battisti, poi rifugiato in Brasile, uno dei transfughi di quella ondata francese, sta scontando i suoi ergastoli in Italia, dopo che il governo sudamericano lo ha, infine, consegnato all’Italia, dove ha ammesso i suoi delitti.

Gli altri pensano che il tempo lunghissimo trascorso da allora abbia cancellato tutto e pensano di avere diritto di rimuovere il loro passato, spesso sanguinoso, assassino.

Ricordo da cronista i viaggi a Parigi per incontrare questi tranfughi, protetti dalla Francia libertaria e rivoluzionaria. Era facilissimo organizzare l’intervista. Loro erano disponibili e compiacenti.

Quasi sempre l’appuntamento era vicino allo Chatelet, quartiere centrale, a due passi dal Louvre, nella nota brasserie Lipp.

I terroristi in esilio arrivavano ed erano prodighi di racconti , spiegazioni, solo attenti a non tradire i compagni che in Italia continuavano la loro lotta armata. Cercavamo di capire dalle loro parole i loro moventi, la loro rabbia, la sicurezza sull’esito della loro battaglia.

Ripartivamo con il taccuino pieno, avevamo magari pagato il pasto ai fuggitivi con i soldi del giornale (e di questo mi sono poi spesso pentito), ma ce ne andavamo con la percezione di una guerra in corso nella quale i fuggitivi si sentivano vittime in pericolo, protetti da una frontiera che prima o poi si sarebbe aperta.

Non si è mai aperta e ora la parola definitiva è calata. Resta solo la Corte Europea per i Diritti dell’uomo, alla quale il Comitato delle Vittime del terrorismo, presieduta da Felice Della Rocca, dirigente industriale, gambizzato a Genova negli anni Ottanta, ricorrerà sicuramente con un obiettivo. Che almeno quei dieci latitanti-fuggitivi siano ancora inseguiti dal loro passato, dai delitti commessi, dal prezzo mai pagato.

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Franco Manzitti