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Una guerra civile feroce e spietata si combatte in Birmania, angolo del mondo poco frequentato e noto

Una guerra feroce e spietata si combatte in Birmania, un angolo del mondo poco frequentato e noto, ma non meno guerra di quelle in Ucraina e a Gaza.

La descrive Carlo Pizzati su Repubblica. Myanmar, cioè Birmania, è infiammata da una guerra civile, fra jungla e montagne. Sono diversi focolai alle frontiere e nel suo centro, tanto da spingere Myint Swe, il presidente della giunta militare golpista birmana, a dare l’allarme: «Se il governo non riuscirà a gestire gli scontri ai confini, la nazione si spaccherà in molti frammenti».

La scintilla che ha provocato questa nuova serie di ribellioni è stata accesa a Pechino, che ha chiesto ai ribelli di chiudere i centri di malaffare e imbrogli online gestiti dalle famiglie mafiose nella zona di confine del Myanmar con la Cina.

Centri che operano grazie allo sfruttamento di migliaia di cinesi costretti ai lavori forzati. Liberateli e avrete il nostro appoggio, questo sarebbe il patto tra Pechino e i ribelli.

Per capire l’intricata rete di alleanze che sta indebolendo il temibile esercito del Tatmadaw (foraggiato fin qui da armi russe e degli stessi cinesi), bisogna fotografare i quattro punti cardinali di Myanmar in una lotta che coinvolge, nel Nord-Est, quattro famiglie criminali tra casinò, traffico d’oppio e raggiri online. Nel Sud, guerrieri etnici Karen al confine con la Thailandia.

A Ovest, militanti Rohingya al confine con il Bangladesh. Nel Nord-Ovest guerrieri dello stato di Chin al confine con il Mizoram indiano. E nel centro, militanti pro-democrazia appartenenti al governo legittimo in esilio, alleati con i suddetti eserciti etnici ben addestrati ed equipaggiati.

L’ “Operazione 1027” di questa vasta alleanza anti-giunta prende il nome dalla data di inizio dell’offensiva coordinata, il 27 ottobre 2023.

La ribellione su tutti i fronti è scaturita una settimana dopo una sparatoria nella “Villa Crouching Tiger” a Laukkaing, la città fulcro del traffico d’oppio e dei casinò al confine con la Cina.

Il 20 ottobre un centinaio di schiavi cinesi, irretiti da imbrogli online, tentarono la fuga dalla villa gestita da gangster venendo falcidiati dalle mitragliate dei criminali che li tenevano ai lavori forzati. Si sospetta che tra le vittime vi fossero agenti cinesi infiltrati da Pechino per indagare sui 100mila cittadini cinesi intrappolati dai criminali con pretesti e imbrogli.

Poiché il leader della giunta militare, Min Aung Hlaing, continuava a proteggere le famiglie di trafficanti che lui stesso ha messo al potere, Pechino ha dato il via libera all’Esercito dell’alleanza nazionale democratica, finanziato dagli eredi di Peng Jiasheng, un ex comandante del Partito comunista birmano divenuto raìs locale. Questo ha scatenato un’offensiva che nel giro di poche settimane ha conquistato 100 avamposti dell’esercito birmano nello stato di Shan, al confine con la Cina.

Ora Pechino chiede un cessato il fuoco, ma la situazione è sempre più tesa. La battaglia contro il Tatmadaw si è scatenata anche nello stato di Chin. La reazione dell’esercito birmano, armato di jet, elicotteri, artiglieria pesante e lanciarazzi multipli ha messo in fuga cinquemila profughi, tra i quali leader politici dell’etnia Chin, cacciati dall’esercito fin nello stato indiano del Mizoram.

Anche a Rakhine, Stato al confine con il Bangladesh, già teatro di atrocità da parte del Tatmadaw, l’Esercito di Arakan ha ripreso a combattere, costringendo i carri armati a scendere in strada a Sittwe, capitale dello Stato. 

Pur avendo la superiorità d’arsenale e addestramento, l’esercito golpista si trova in una situazione critica con tante crisi contemporanee. Circolano già video di truppe che s’arrendono per unirsi alla rivolta, nella speranza che la notizia raggiunga le caserme, dove i militari vengono però severamente tenuti all’oscuro delle notizie per evitare altre diserzioni.

 

Marco Benedetto

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