“Un’operaia, questo ero. D’altronde, con la terza media, a cosa avrei potuto aspirare? Lo studio mi è sempre piaciuto, ma non potevo permettermi di stare sui libri: mi servivano i soldi, avevo due bambini da mantenere. Mio marito mi trattava male, non collaborava in casa né nell’educazione dei figli. Era tutto sempre maledettamente sulle mie spalle”. Questo è il racconto di Francesca, nome di fantasia. La donna entrava nell’azienda la mattina e ne usciva distrutta nel pomeriggio. Non poteva adagiarsi però sulla stanchezza, fisica e morale; i suoi bambini la aspettavano a casa, dove cominciava il lavoro di madre.
Ma la vita non poteva essere solo questo, continuava a ripetersi ogni mattina. E allora tempo fa decise di rimettersi a studiare, a costo di non dormire la notte, a costo di essere stanca tutto il giorno. Un sacrificio premiato poi dal diploma che le consentì di avanzare in carriera nell’azienda in cui lavorava.
I suoi capi con il passare del tempo la apprezzano sempre di più e, da operaia, Francesca diventa impiegata. Ma non le basta ancora. Studiare le piace e le riesce semplice, così si prefigge un altro ambizioso traguardo: la laurea. È dura, ma la stanchezza non la spaventa.
“Mi sono laureata – racconta oggi – e, da impiegata, sono diventata una dirigente, sempre nella mia azienda. A quel punto, con l’avanzamento di carriera e lo stipendio più alto, sono esplosi i problemi a casa. Mio marito, che era un operaio, ha cominciato ad aggredirmi verbalmente, anche davanti ai miei figli: non sopportava di guadagnare meno di me. Pure se questo significava che la nostra famiglia sarebbe stata meglio economicamente. Mi denigrava come donna, tanto che aveva cominciato un’altra relazione. E come mamma, dicendomi che non valevo nulla, che non sapevo fare niente. Davanti ai bambini mi diceva che ero una poco di buono, per usare un eufemismo; mi controllava, non voleva che uscissi con le amiche. Un incubo.”
Francesca decide allora di presentare una denuncia per maltrattamenti psicologici, che “è stata archiviata – racconta ancora con rabbia -. Non è stata riconosciuta. Come se la violenza fosse solo morire ammazzate. Ho chiesto allora la separazione. Ma mio marito mi ha fatto la guerra per l’affidamento dei due figli. Che non ha mai curato, peraltro. Oggi abbiamo l’affidamento condiviso: non sono stupida, è il suo modo per controllarmi ancora. I figli sono ostaggi di una continua guerra, dove lui gioca crudelmente a svalorizzarmi. Il patriarcato è presente nelle relazioni, anche in maniera subdola. Ma io sono più forte oggi, anche perché ho saputo chiedere aiuto in tempo”.
Francesca si è rivolta alla D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) quando ha capito che da sola non ce l’avrebbe fatta. Ed è stata seguita per un anno da una volontaria. Poi è arrivata l’estate e i contatti tra le due si sono diradati. “Un giorno sento bussare alla porta – ricorda l’operatrice -. Era lei, ma io non l’avevo riconosciuta. Aveva una bellissima luce, era rifiorita, viva”.
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