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Emanuela Orlandi 40 anni dopo, per la moglie italiana di Agca la pista bulgaro-sovietica montatura: cercate a Roma

Emanuela Orlandi scomparve 40 anni fa, il 22 giugno del 1983. Il più fitto mistero avvolge il suo destino, aggravato da una serie di falsità, mitomanie e depistaggi. Pino Nicotri ha intervistato Elena Rossi, la moglie italiana di Alì Agca, il turco che sparò, senza ucciderlo, a papa Wojtyla Giovanni Paolo II, figura costante nella leggenda di Emanuela. L’intervista è molto lunga (oltre 7 mila parole). La pubblichiamo in 7 puntate, una domenica 11, le altre fra domenica 18 e giovedì 22, anniversario.

Si chiama Elena Rossi, nata a Ravenna il 13 luglio 1967. Ha due lauree, una in scienze politiche conseguita a Bologna (1993), e una in filosofia a Roma Tre (2003). Nel 2015 ha sposato Alì Mehmet Agca, il turco condannato all’ergastolo per avere sparato nel 1981 a papa Wojtyla.

Agca nel 2000 graziato è tornato in Turchia, dove per vivere è socio in un’agenzia immobiliare.. Per sposarlo, Elena Rossi si è convertita all’Islam e vive con lui in Turchia. Ora sta scrivendo un libro sull’intricata storia dell’attentato a Wojtyla e annessi e connessi. Comprese le scomparse di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Della prima dice che è viva, confermando quanto detto a Ferruccio Pinotti del Corriere della Sera la scorso dicembre. Della seconda invece non ha nessuna notizia.

Del famoso codice 158, utilizzato dai sedicenti rapitori di Emanuela per parlare al telefono con la Segreteria di Stato del Vaticano e che tante polemiche ha suscitato anche di recente, dice che sarà Agca in persona a spiegarne finalmente il vero significato. Però intanto anticipa che il codice riguardava Agca e non altro, smentendo così tutte le altre spiegazioni e “rivelazioni”.

Da quando Agca è tornato libero che lavoro fa per vivere?

Ali insieme a un nipote e a un amico ha un’agenzia immobiliare. Commerciano in case, terreni e talvolta anche in camion e macchine agricole.

Può raccontarci come lo ha conosciuto, perché ha deciso di sposarlo e seguirlo in Turchia? 

Ho una visione piuttosto fatalistica della vita e soprattutto in amore, credo alla predestinazione, in fondo non scegliamo di chi innamorarci, Ali è il mio predestinato e tra noi c’è stato un reciproco riconoscimento di anime e di corpi. Quando è venuto sulla tomba di Wojtyla nel dicembre 2014 ho avuto un ritorno di fiamma, quella fiamma che soffocai da ragazzina su insistente consiglio di parenti e amici.

Se fosse possibile tornare indietro, andrei a trovarlo in carcere e ci saremmo certamente sposati mentre era ancora detenuto in Italia. Purtroppo è andata diversamente… ma forse è così che doveva andare. Alla fine di dicembre 2014 cominciai a cercare un suo contatto e riuscii a trovare la mail del suo avvocato, così gli scrissi e lui mi rispose. Cominciammo anche a sentirci per telefono.

Poi a gennaio andai a İstanbul per incontrarlo. Non conoscevo il suo indirizzo, avevo solo un numero di telefono nemmeno intestato a lui, ma partii fiduciosa senza alcun timore. Lui piuttosto, mi confidò un po’di tempo dopo di aver avuto qualche sospetto che potessi essere una spia del KGB o del Vaticano… una di quelle spie che usa il metodo Romeo ! Dopo poco i sospetti si dissiparono ed eccoci ancora qui, insieme, dopo quasi 8 anni.

Come l’hanno presa i suoi genitori?

Ai miei dissi di avere sposato un turco senza specificarne bene l’identità. Mia mamma aveva un grave problema circolatorio e poi venne a mancare poco dopo a causa di un ictus, mentre mio babbo soffriva di alzheimer e non era nemmeno più tanto in grado di capire, quindi ho preferito evitare di comunicare loro una notizia inevitabilmente un po’ allarmante. Gli altri parenti che mi restano lo sanno e hanno accettato serenamente la cosa.

Lei ha due lauree. Che lavoro fa per vivere?

Ho ereditato un po’ di soldi da mia mamma e li ho investiti in banca qui in Turchia dove i tassi di interesse sono decisamente più alti rispetto all’Italia e mi garantiscono un’entrata mensile di tutto rispetto. Penso che continuerò a scrivere su argomenti di cronaca e sui problemi del Medio Oriente attorno ai quali esiste parecchia disinformazione. 

Veniamo alla cronaca di questi giorni di vigilia per la scomparsa di Emanuela Orlandi, telefono a Elena Rossi

Buongiorno. Ho saputo che lei sta scrivendo un libro. Di che si tratta?

In un primo capitolo introduttivo parlo della mia storia con Ali Ağca e di lui come persona, cercando di metterne a fuoco il profilo psicologico e ideologico. Poi mi occupo per esteso dell’attentato al Papa poiché sull’argomento sono stati scritti tanti articoli e libri, ma per la maggior parte si tratta di ricostruzioni fantasiose che ben poco hanno a che fare con la realtà dei fatti.

Un’infinità di imprecisioni, errori, manipolazioni, depistaggi, opinioni personali presentate come verità assolute. Ali, dal canto suo, ha contribuito a infittire la nebbia, più che a dissiparla, anche per ragioni editoriali, giornalistiche e anche perché  si diverte tanto a mantenere un alone di mistero intorno a sé. Io invece la penso diversamente. Intendo fare piena chiarezza su tutti gli equivoci e le menzogne di questa ultra quarantennale storia, una volta per tutte.

Quello che per gli altri è solo un soggetto di cronaca nera, per me è mio marito, la mia famiglia, dunque basta chiacchere inutili! I suoi debiti con la giustizia li ha ampiamente pagati, e quindi merita lo stesso rispetto dovuto a qualsiasi altra persona. 

Lo stesso vale per me che non ho sposato un sicario a pagamento, come del resto stabiliscono ben tre sentenze che non sono riuscite a dimostrare l’esistenza di alcun complice o mandante. Desidero inoltre precisare che solo ora ho preso la parola pubblicamente, dopo oltre 7 anni di matrimonio, poiché ormai vivo stabilmente in Turchia e dunque mi sento più libera e al sicuro.

 Le dico subito come la penso, già da anni. Alì Agca il 13 maggio ’81 ha sparato in piazza S. Pietro a Papa Wojtyla di propria iniziativa, in quanto fanatico islamista come aveva dichiarato di voler fare già il 27 novembre 1979 in una lettera al giornale Milliyet, del quale aveva ucciso il direttore Ipekci.

Non c’entrano nulla né la Bulgaria né l’Unione Sovietica. La “pista bulgara” come collegamento tra lui e i servizi segreti KGB di Mosca, accusati di essere i mandanti dell’attentato, è solo un’invenzione. Fatta fare ad Agca in cambio di qualche vantaggio, per esempio soldi ai suoi genitori o una promessa di liberazione in tempi non lunghi.

 Quasi tutto giusto. Apprezzo molto il fatto che lei abbia ben compreso, nonostante gli incredibili depistaggi, che l’attentato al Papa non ha mandanti e che Ali Ağca non sia stato proprio quel “killer perfetto” di cui parla, ad esempio, il cardinale Dziwisz nel suo libro Una vita con Karol.

La pista bulgaro-sovietica è una montatura assoluta, costruita interamente a tavolino al preciso scopo di screditare l’Unione Sovietica, considerata da Wojtyla e da Reagan, come l’impero del male. Lo scopo era quello di convogliare il disprezzo di 1 miliardo di cattolici sparsi per il mondo contro il blocco comunista. La gente fa fatica a cogliere questo aspetto perché sembra amare i complotti. Inoltre, l’italiano medio tende ad assorbire pedissequamente tutto ciò che legge sui giornali e vede alla televisione senza esercitare un minimo di analisi critica personale.

 Agca si era già “esercitato” uccidendo il giornalista turco direttore del giornale Milliyet.

In quanto all’omicidio del giornalista turco Abdi Ipekçi non fu Ali ad ucciderlo. Sapeva del progetto, deciso ‘molto in alto’ ma non partecipò materialmente all’agguato. Si assunse la responsabilità per «salvare 10 compagni» mi ha detto. Su precisa segnalazione, la polizia lo raggiunse mentre era seduto in un caffè. Gli chiesero se era stato lui a sparare a İpekçi e Ali rispose di sì, senza provare minimamente a negare.

Le sembra normale ?! Lo ha fatto per ragioni ideologiche e anche, diciamolo, per avere l’applauso. E lo ha avuto, infatti, ancora adesso, in molti lo cosiderano un eroe in Turchia. I suoi compari lo fecero poi uscire in fretta dal carcere e lo aiutarono molto durante la latitanza proprio in virtù del suo gesto eroico. Poi perché, posto davanti al cappio (allora c’era la pena di morte in Turchia), avrebbe potuto dire la verità.

Ali non è mai stato un “fanatico islamista” e nemmeno i suoi compagni lo erano. Nessuno di loro era particolarmente praticante. Musulmano convinto si, ma non fanatico. C’era in lui un certo fanatismo, ma più personale e psicologico che religioso.

Come ha scritto lei nel suo ultimo libro, Ağca, al tempo dell’attentato, era un po’ «spiritato» e molto desideroso di uscire dall’anonimato per passare alla storia. In cambio dell’accusa ai Servizi bulgari gli promisero la liberazione in due anni. Niente promessa di soldi alla famiglia.

Pino Nicotri

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