Mistero Emanuela Orlandi: premesso che quando il 7 luglio sono stato interrogato dal magistrato vaticano ho indicato una pista totalmente diversa, la querelle sullo zio Mario Meneguzzi, giusta o sballata che sia, poteva esplodere già venti anni fa o almeno dieci anni fa.
Vediamo perché. E vediamo anche perché non è esplosa. E’ una storia incredibile, istruttiva e interessante.
Le parole seguenti, riportate tra virgolette, fanno parte di una telefonata, debitamente registrata, del 6 maggio 2002. Preceduta da un’altra telefonata fatta un paio di giorni prima.
L’interlocutore A sono io.
L’interlocutore B è Gennaro Egidio, avvocato storico degli Orlandi. Nel corso anche di quella telefonata mi escluderà nel modo più assoluto che Emanuela fosse stata rapita per chiedere un qualche tipo di riscatto, politico o soldi, affermando invece. “Io propendo più per cose semplici, normali, così, che per altro”.
Come riportato all’epoca dal Corriere della Sera a firma di Andrea Purgatori, Mario Meneguzzi ha spiegato che a consigliare di prendere Egidio come legale è stato lui. Non il SISDE, quindi, come invece sostenuto da molti compreso Ercole Orlandi, padre di Emanuela.
Martella è il magistrato Ilario Martella, terzo titolare dell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Sica è Domenico Sica, secondo titolare della stessa inchiesta subito dopo la collega Margherita Gerunda, che aveva affiancato fin dall’8 luglio 1983, 16 giorni dopo la scomparsa della ragazza vaticana. Vale a dire, fin dal giorno in cui il SISDE suggerì a Gerunda la falsa pista di Emanuela “probabilmente rapita per essere scambiata con Alì Agca”. Agca è l’esaltato turco condannato all’ergastolo perché nell’81 aveva attentato alla vita di Papa Wojtyla sparandogli due colpi di pistola in piazza S. Pietro.
La nipote è Emanuela Orlandi.
E lo zio Mario Meneguzzi è appunto lo zio che nel 1978, stando a documenti esistenti e noti a Sica fin dal settembre ’83, ma resi noti solo in tempi recenti, pare ci avesse “provato”, invano, con la nipote Natalina, allora 21enne. A renderlo noto è stato il telegiornale de La7 del 10 luglio.
Come appare ben chiaro, con quel suo “Ah, già….” Egidio, per nulla sorpreso, dimostra di essere stato bene al corrente dei sospetti di Sica. Sospetti tali da convincere Sica a far pedinare Mario Meneguzzi quando dal Vaticano gli trasmisero la conferma ricevuta in Segreteria di Stato da monsignor José Luis Serna Alzate, ex confessore e assistente spirituale della famiglia Orlandi, che Natalina, sorella allora 21enne di Emanuela, nel ’78 aveva ricevuto da zio Mario Meneguzzi “attenzioni morbose” tali da averla “terrorizzata”.
Attenzioni che Natalina nella conferenza stampa dell’11 luglio scorso ha declassato a “semplici avance verbali”.
Come che sia, Meneguzzi doveva avere qualche motivo per temere di essere sotto osservazione, tanto da guardarsi attorno con molta attenzione fino ad avere la sensazione di essere seguito da un’auto con due uomini a bordo.
Per averne eventuale conferma si rivolse al giovane innamorato, non corrisposto, di sua figlia Monica: vale a dire a Giulio Gangi, entrato da poco in polizia e nel SISDE con la qualifica di semplice coadiutore. Poiché si presume che i pedinatori di Meneguzzi fossero gente del mestiere, poliziotti o carabinieri bene attenti a non farsi notare dalle persone sotto osservazione, se ne deve dedurre che Meneguzzi doveva essere particolarmente guardingo.
Ma vediamo a pagina 101 del mio libro Triplo inganno (il terzo dedicato al mistero Orlandi) cosa mi ha detto Giulio Gangi di quella faccenda:
“Un giorno Mario Meneguzzi mi ha telefonato dalla sua casa al mare di Santa Marinella perché aveva l’impressione di essere seguito da un’auto con due uomini a bordo. Gli dissi che, se avesse rivisto quell’auto, se ne segnasse il numero di targa e che avrei fatto delle verifiche. E infatti dopo qualche tempo mi richiamò per dettarmi il numero.
“Feci i controlli, che all’epoca consistevano nello spulciare nei fascicoli perché i computer non esistevano ancora, e a un certo punto trovai la targa tra quelle “coperte”. Chiaro quindi che Sica, o comunque qualcuno in alto nel Sisde o tra gli investigatori, aveva puntato zio Mario. Commisi la leggerezza di dirglielo”.
Una leggerezza decisamente sciagurata visto che ha mandato all’aria la possibilità che il magistrato Sica, avvertito dal Vaticano delle affermazioni di monsignor Alzate, appurasse se lo zio potesse davvero avere avuto a che vedere con la scomparsa della nipote. Nonostante la debacle, o forse anche proprio a causa del comportamento guardingo e sospettoso del Meneguzzi, Sica rimase tanto convinto dei propri sospetti, ormai però non più dimostrabili, che non diede più peso alla “pista bulgara”.
Alla pista cioè che voleva Agca spedito a sparare a Papa Wojtyla dai servizi segreti bulgari su incarico dei servizi segreti dell’allora esistente Unione Sovietica, decisa a troncare il grande supporto che Wojtyla dava alla sua Polonia stufa del comunismo e della propria subalternità a Mosca. Le lamentele espressemi da Martella sul fare “poco o nulla” di Sica erano dovute anche al fatto che Martella della “pista bulgara” era invece convintissimo.
Non potevo certo immaginare neppure da lontano che i sospetti e il conseguente pedinamento deciso da Sica fossero dovuti a quanto emerso solo lo scorso luglio circa le “semplici avance verbali” o “attenzioni morbose” di zio Mario.
Avevo ormai consegnato alla casa editrice Kaos il testo del mio primo libro sul caso Orlandi, pubblicato il mese successivo col titolo Mistero Vaticano La scomparsa di Emanuela Orlandi. Se avessi voluto inserire nel testo quanto dettomi da Martella e già noto a Egidio, magari con il testo dell’intera telefonata, non avrei comunque potuto spiegare a cosa fossero dovuti i sospetti di Sica per il semplice motivo che non ne conoscevo la causa e, come appena detto, non potevo neppure immaginarmela.
In ogni caso non avrei potuto citare atti giudiziari sull’argomento per il semplice fatto che a tutt’oggi non risulta che Sica li abbia trasmessi ai magistrati che si sono occupati del mistero Orlandi dopo di lui, vale a dire a Ilario Martella e Adele Rando.
Che quindi non ne sapevano nulla. Inoltre c’era il problema che Martella mi aveva fatto quell’affermazione in via confidenziale e non era disposto a vedersela attribuire pubblicamente. Decisi quindi di aspettare tempi migliori. Speravo che le indagini venissero riaperte così da rivolgermi al nuovo magistrato perché appurasse quali fossero i motivi alla base dei sospetti di Sica. E perché fossero così forti da diventare per lui una convinzione.
Mentre aspettavo tempi migliori non ho mancato però di far notare alcune cose nei miei nuovi libri. A pagina 91 de “Emanuela Orlandi La verità. Dai Lupi Grigi alla Banda della Magliana” (edito nel 2008) ho scritto:
“Al posto di Gerunda, Gallucci [Achille Gallucci, capo dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Roma. NDR] mette Domenico Sica, fama di grande esperto in inchieste di terrorismo (Brigate Rosse ecc.), che per un po’ sarà convinto che Emanuela è scappata come tante sue coetanee per ragioni di cuore, e che perciò prima o poi ritornerà, per convincersi infine che è invece rimasta vittima di una qualche storiaccia sessuale con qualche adulto a lei molto vicino”.
E a pagina 101 di Triplo inganno, edito nel settembre 2014, ho scritto:
“Sica però prima si convincerà che la scomparsa di Emanuela sia l’usuale fuga temporanea da casa di non poche adolescenti (per protesta o per amore), poi invece sospetterà che ci sia di mezzo una brutta storia con qualcuno a lei molto vicino”.
E a pagina 102:
«Meneguzzi aveva sin dal principio dato adito a sospetti per il suo comportamento eccessivamente presenzialista» spiega oggi Margherita Gerunda. «Sembrava che, più che essere di aiuto alle indagini, volesse conoscere cosa veniva scoperto dagli inquirenti. Decidemmo di conseguenza di tenerlo il più possibile a distanza».
L’occasione ho creduto si fosse presentata con la nuova indagine aperta dal magistrato Giancarlo Capaldo nel 2008. Ho seguito a lungo come anche lui insistesse a pestare l’acqua nel mortaio con la pista del rapimento, anche se questa volta non più per mano dei Lupi Grigi per scambiare Emanuela con la libertà di Agca, ma per mano della Banda della Magliana.
E così a un certo punto ho deciso di consegnargli i nastri con le registrazioni delle mie due telefonate a Egidio. L’avvocato storico degli Orlandi vi escludeva nel modo più assoluto rapimenti di un qualche tipo, politico o malavitoso o estorsivo di quattrini. Oltretutto il magistrato, se lo avesse voluto, avrebbe potuto cercare i documenti in base ai quali Sica si era convinto “che fosse una storia tra la nipote e lo zio Mario Meneguzzi”.
Ho consegnato in via informale i file delle registrazioni delle due telefonate a Giancarlo Capaldo il 4 ottobre 2011. Con l’occasione gli ho suggerito il nome di un grande esperto, John Trumper, per analizzare voci e accenti delle telefonate del cosiddetto Americano, sedicente portavoce dei “rapitori”, nonché della voce che veniva attribuita a Emanuela in un nastro registrato fatto trovare in via della Dataria: nastro che conteneva la registrazione di grida e parole attribuite a Emanuela sottoposta a stupro.
La mattina del 17 febbraio 2012 Capaldo mi ha chiesto per telefono di inviare i file anche alla sua collega Simona Maisto, per poterli ascoltare insieme. Li hanno ascoltati nella mattinata del 17 febbraio, quando combinazione vuole che abbiano anche ricevuto Pietro Orlandi. Se gli hanno fatto ascoltare i file – quando gliel’ho chiesto Capaldo ha preferito non rispondermi – si spiegherebbe perché proprio dal 2012 Pietro Orlandi inizia a raccontare balle mostruose contro di me per farmi emarginare e ostracizzare da giornali e tv.
Il 18 febbraio Capaldo mi ha telefonato dall’ospedale dove era ricoverata la madre per darmi l’ok per la pubblicazione e per dirmi che lui e Maisto il giorno prima, 17, avevano iniziato a vagliare il materiale per poi decidere se formalizzare l’avvenuta consegna e metterlo agli atti. Cosa di cui non ho saputo più nulla.
Il 28 febbraio 2012 blitzquitidiano.it pubblica sia l’articolo con il testo della prima telefonata a Egidio ( ) che l’articolo con il testo della seconda telefonata, con a corredo i file in MP3 delle registrazioni. Poiché le telefonate sono piuttosto lunghe, chi ha curato la loro trascrizione ne ha dovuto tagliare buona parte. A causa dei rumori di fondo non ha riportato la mia frase su Martella/Sica/Meneguzzi e la non meravigliata risposta di Egidio.
Frase e risposta che ascoltando attentamente si possono udire abbastanza chiaramente. Tant’è che non ho dato molta importanza al fatto che non siano state trascritte. Davo per scontato che i lettori avrebbero ascoltato i file. Quello che realmente mi interessava era che li avesse ascoltati Capaldo, che oltretutto aveva anche i mezzi per far ripulire i file dai rumori di fondo.
Lo stesso giorno 28 febbraio ho inviato via mail i link ai due articoli, contenenti i file sonori, ad alcuni colleghi, compresi Federica Sciarelli e Fiore De Rienzo di “Chi l’ha visto?”: con l’avvertenza “A sentire il sonoro è anche più efficace”.
Evidentemente il sonoro dev’essere stato così efficace da convincerli a ignorarlo. Non si potevano certo cestinare come se niente fosse i 30 anni di “rivelazioni” e piste una più strampalata dell’altra che avevano trasformato la tragedia della scomparsa di una ragazza in un redditizio show dalle infinite puntate.
Capita l’antifona, non ho insistito. Mi bastava avere le prove del disinteresse non solo di certi noti colleghi, ma anche di un magistrato, a uscire dal sensazionalismo dei “rapimenti” di vario tipo per non rischiare la fine dello show.
Poi col passar del tempo della faccenda me ne sono colpevolmente dimenticato. Finché qualche settimana fa due iscritti al mio gruppo Facebook “Vogliamo la verità su Emanuela Orlandi!” hanno ripescato i file per trasformarli dal vecchio formato MP3, non più supportato da gran parte di computer e telefonini, in un formato più moderno.
Dopodiché hanno postato nel gruppo anche la trascrizione di quel passaggio su Martella/Sica/Meneguzzi. Cosa che ha fatto fare un salto sulla sedia non solo a me, costretto così a recuperare di colpo la memoria. E a rimproverarmi di averla prima persa.
Il 23 o il 24 giugno 1983, cioè uno o due giorni dopo la scomparsa di Emanuela, Mario Meneguzzi porta un comunicato all’Ansa, che lo pubblica alle ore 16:21 del 24. Il comunicato parla dei timori degli Orlandi che si trattasse di un rapimento anche se non c’era ancora nulla che lo facesse pensare.
Nei giorni immediatamente successivi ne parleranno Il Tempo, Il Messaggero e Paese Sera, che riportano il numero di telefono degli Orlandi. Mi è stato fatto notare da tempo da più persone che secondo loro la foto di Emanuela scelta per tappezzare Roma nella notte tra il 29 e il 30 giugno con 3.000 grandi manifesti è una foto che non le somiglia molto. E che quindi non sarebbe stata molto utile per eventuali riconoscimenti. Stando a quanto scrive lagiustizia.net:
“In un appunto del 7 luglio 1983, firmato dal vice direttore Parisi e indirizzato al Gabinetto-Segreteria Speciale del ministro dell’Interno, il SISDE scriveva: «Per quanto concerne i manifesti recentemente affissi sui muri di Roma, si è appreso che essi sono stati stampati di iniziativa della famiglia Orlandi presso la tipografia “La Piramide” di proprietà dello zio della ragazza»”.
Cioè di Mario Meneguzzi.
Avere tappezzato la città con manifesti è stata una scelta non suggerita né dalla polizia né dai carabinieri e tanto meno da magistrati. Inoltre avervi stampato a grandi caratteri il numero di casa degli Orlandi, abitanti in Vaticano, uno Stato diverso da quello italiano, è stata una scelta che, com’era prevedibile, ha dato la stura a telefonate di mitomani e anonimi variamente volenterosi.
Comprensibile il desiderio di poter essere contattati direttamente dagli eventuali rapitori per poter trattare l’eventuale riscatto per il rilascio, ma le segnalazioni di chi avesse visto Emanuela sarebbe stato meglio indirizzarle alla polizia o ai carabinieri. Questi infatti a differenza degli Orlandi sapevano come muoversi e cosa fare, compreso il registrare subito le telefonate e risalire al numero di telefono del chiamante.
Come che sia, le telefonate sono state gestite tutte da zio Mario Meneguzzi, presente apposta a casa di Emanuela per rispondere alle chiamate dei “rapitori” ed eventualmente trattare. Per la comprensibile apprensione, paura e dolore i genitori di Emanuela non erano in grado di farlo. Avrebbe potuto farlo Pietro Orlandi, ormai 24enne, ma lui con la sua moto si è dedicato alle ricerche in città e dintorni. Finché il 22 luglio gli Orlandi lanciano pubblicamente un appello a rivolgersi da allora in poi non più a casa loro, ma allo studio di Egidio.
Stando a quanto mi ha detto Gerunda quando la intervistai, Sica non rimase molto convinto dell’alibi di Meneguzzi. Oggi sappiamo il perché della scarsa convinzione grazie a quanto dichiarato da suo figlio Pietro Meneguzzi a Quarto Grado quando ne è stato ospite un mese fa.
Suo figlio ha infatti sostenuto che la sera della scomparsa Ercole Orlandi, padre di Emanuela, telefonò alle 21:30 a casa a Roma cercando suo padre e lui gli rispose che era a Torano da qualche giorno. Ma allora perché Ercole gli ha poi telefonato a Torano solo verso mezzanotte? Può avergli telefonato prima senza trovarlo in casa o senza che nessuno rispondesse al telefono?
Oggi inoltre possiamo aggiungere una domanda in più. Pietro Meneguzzi ha sostenuto che a Torano da qualche giorno c’era anche zia Anna Orlandi, la sorella di Ercole che abitava in casa con lui e famiglia in Vaticano (l’altra sorella, Lucia Orlandi, era la moglie di Mario Meneguzzi).
Il particolare è stato confermato di recente su Facebook da Pietro Orlandi, che ha così cambiato versione rispetto quanto affermato nel suo libro “Mia sorella Emanuela”, nel quale zia Anna figurava in casa in Vaticano a preparare la pizza per la cena.
Se sua sorella Anna anziché in casa con lui in Vaticano era a Torano da qualche giorno, Ercole avrebbe dovuto sapere che era lì con i Meneguzzi. Tanto più che, come ha dichiarato Pietro Meneguzzi, erano partiti assieme. Anche se a Torano zia Anna stava in una casa e i Meneguzzi in un’altra è difficile credere che non abbia detto a suo fratello Ercole che Mario Meneguzzi era lì da giorni.
La domanda in più è: perché Ercole alle 9:30 anziché telefonargli a casa a Torano ha telefonato a Mario a casa a Roma?
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