Emanuela Orlandi e lo zio. Il carteggio riguardante le insistenti avance fatte nel 1978, cinque anni prima della scomparsa di Emanuela Orlandi, dallo zio Mario Meneguzzi a sua nipote Natalina, sorella di Emanuela, ha avuto l’effetto di un sasso contro un grande nido di vespe.
S’è immediatamente messo in moto il fronte negazionista: pare quasi che ispirandosi al film “Salvate il soldato Ryan” sia andato in produzione fulminea il film “Salvate lo zio Mario”. Cosa ovvia e scontata visto che avendo avvalorato per 40 anni le ipotesi più assurde e scombiccherate, lucrandoci alla grande da parte di molti e facendo la fortuna di qualche programma televisivo e annessi conduttori, era francamente impossibile che costoro non difendessero le proprie posizioni con le unghie e con i denti.
Fino al rilancio dei sospetti su Papa Wojtyla, alla riproposizione della “trattativa” – corpo di Emanuela in cambio dello spostamento della sepoltura di De Pedis dallo scantinato della basilica di S. Apollinare – e fino ad altro ancora anche se assurdo e già dimostrato falso dalle indagini giudiziarie.
In questo pronto intervento negazionista si sono distinti il Corriere della Sera e Il Fatto Quotidiano: entrambi hanno fatto ricorso all’intervista a “un ex poliziotto che a suo tempo partecipò alle indagini”.
Poliziotto pronto a garantire che “lo zio non c’entra nulla, facemmo indagini anche su di lui e appurammo che non c’entrava nulla. Perquisimmo anche la sua abitazione”.
Entrambi i giornali hanno intervistato lo stesso poliziotto senza farne il nome, mantenendone cioè l’anonimato. Per essere credibile, una testimonianza non può certo restare coperta dall’anonimato. Come invece è avvento anche per la telefonata – anonima pure quella – lanciata nel settembre 2005 da “Chi l’ha visto?” e che diede vita al grottesco tormentone, durato molti anni, di Emanuela sepolta nella stessa bara di Enrico De Pedis, l’asserito “boss della banda della Magliana”. E sepolta magari anche con Mirella Gregori, la sedicenne scomparsa a Roma qualche settimana prima di Emanuela e rimasta a fare sempre da ruota di scorta del mistero Orlandi.
Sorprende che Il Fatto Quotidiano, fama di giornale colpevolista se non proprio forcaiolo, per quanto riguarda zio Mario Meneguzzi sia invece sceso immediatamente in campo come garantista e addirittura negazionista.
Come che sia, è evidente che l’ex poliziotto è Pasquale Viglione, come del resto confermatomi anche dall’interno del Corriere della Sera. Viglione, che conosco bene e al quale ho fatto notare con messaggi whatsapp la scorrettezza dell’anonimato, quando è andato in pensione ha avuto un contratto con il programma “Chi l’ha visto?” per fare da consulente per una ventina di puntate.
Un particolare della sua “testimonianza” dimostra che è stata piuttosto affrettata e fin troppo disinvolta. Viglione infatti ha affermato che di zio Mario Meneguzzi venne perquisita “anche l’abitazione”. Il problema è che Meneguzzi di abitazioni ne aveva almeno tre, tutte frequentate nel periodo della scomparsa di Emanuela e del racconto dell’ex poliziotto: la casa al mare di Santa Marinella, la casa vacanze a Spedino Borgorose vicino Torano e almeno una casa a Roma. Chiaro quindi che Viglione non ricorda bene…
Per realizare il film Salvate lo zio Mario è stato immediatamente ricordato il suo alibi: quando a Roma sparì Emanuela lui era in vacanza nei pressi di Torano, quindi è sicuramente innocente. Certo, è sicuramente innocente, ma Torano si trova a soli 90 chilometri da Roma, raggiungibile in un’oretta. Inoltre a suo tempo Ercole Orlandi, padre di Emanuela, gli telefonò disperato verso mezzanotte per chiedere anche il suo aiuto. Erano cioè trascorse ben cinque ore trascorse dalla scomparsa di Emanuela. E in cinque ore si può andare a Roma e tornare a Torano anche due volte.
Elettra Orlandi, figlia di Pietro, su Facebook in un eccesso di zelo moltiplica i chilometri come fossero i pani e pesci delle famose nozze di Cana: “Torano è a 200 chilometri da Roma”.
Per giunta Pietro Meneguzzi, figlio di zio Mario, ecco che ricorda una telefonata di Ercole fatta alle 21,30, cioè due ore prima di quanto noto fino ad oggi. O meglio, di quanto noto fino al giorno prima che saltasse fuori il sorprendente carteggio tra la magistratura italiana e il Segretario di Stato Vaticano relativo alle insistenti avance dello zio Mario.
Pietro Meneguzzi a suo tempo sostenne che il giorno della scomparsa di Emanuela tutta la famiglia era a Torano, quando invece il padre Mario testimoniò nel 1985 che con lui a Torano c’erano solo la moglie Lucia Orlandi, la loro figlia Monica e la zia Anna Orlandi, che abitava da una vita in Vaticano con la famiglia di suo fratello Ercole, padre di Emanuela.
La stessa zia Anna che Pietro Orlandi nel suo libro “Mia sorella Emanuela – Voglio tutta la verità”, scritto nel 2012 con il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci, sostiene fosse invece in casa con lui, i suoi genitori e tre sorelle in attesa di Emanuela per mangiare la pizza.
Mario Meneguzzi è sicuramente innocente, anche perché il suo tampinare all’epoca i magistrati per sapere cosa stessero man mano appurando, cosa che li insospettì molto fino a sospettare di lui e a farlo pedinare, può essere dovuto a voler proteggere non necessariamente se stesso, ma eventualmente invece un amico, un parente, una persona cara. Vedi l’agitarsi odierno di Ignazio La Russa e Beppe Grillo per difendere a tutti i costi i propri figli dall’accusa di stupro. Figuriamoci cosa farebbero se i figli fossero accusati anche dell’uccisione delle stuprate.
Il lancio da parte del TG7 del famoso carteggio su zio Meneguzzi e nipote Natalina è stato preceduto da altre accuse infamanti contro alcuni giornalisti e magistrati, compreso soprattutto il Promotore di Giustizia del Vaticano, lanciate da Pietro Orlandi e dai suoi seguaci senza se e senza ma. Una volta avvenuto, il lancio è stato immediatamente definito dagli Orlandi e Meneguzzi “un puro depistaggio attuato attraverso i media”.
Pietro Orlandi, convinto erroneamente che il carteggio sia stato fatto filtrare a bella pista dal Vaticano anziché dal palazzo di Giustizia di piazzale Clodio, è arrivato a dire che con quel carteggio il Vaticano ha “perso l’ultimo briciolo di dignità”.
Ma allora la lettera all’arcivescovo di Canterbury con annessa “pista inglese”, i cinque fogli che riportano gli asseriti resoconti delle spese del Vaticano per Emanuela ancora viva e prigioniera, le voci che hanno portato all’apertura di due tombe del cimitero Teutonico vaticano e la dozzina di piste rivelatesi tutte fasulle ma avvalorate spesso anche da Pietro in questi 40 anni cosa sono? Non sono depistaggi attuati attraverso i media? Non sono briciole di dignità man mano perse? O ci sono depistaggi che si possono citare e depistaggi che si devono invece tacere? O le briciole di dignità le perdono solo ed esclusivamente gli altri?
E a proposito di dignità:
– è dignitoso continuare a sputare nel piatto dove si abita e si mangia a prezzi scontati ? E’ cioè dignitoso continuare ad abitare in un bell’appartamento – in via della Conciliazione a soli 150 metri da piazza S. Pietro – la cui proprietà fa capo a quello stesso Vaticano che si accusa di essere responsabile della sorte di Emanuela e/o di tacerla in modo omertoso? E’ dignitoso continuare a fare benzina e spese a prezzi scontati nei negozi di questo stesso Vaticano?
– E’ dignitoso che un fratello continui a sbandierare per televisione quelli che insiste a definire “lamenti di mia sorella mentre viene stuprata”?
– E’ dignitoso che il fratello per confermare quanto detto dal “reo confesso” Marco Fassoni Accetti sbandieri per televisione, radio e giornali che Emanuela il giorno in cui è scomparsa “aveva le mestruazioni”?
– E’ dignitoso che Pietro Orlandi non chiarisca le frasi dette a monsignor Saverio Salerno su maneggi di “quattrini sporchi” e “soldi sporchi” quando lavorava alla banca vaticana IOR?
La reazione esplosa quando si è scoperta la cosiddetta pista dello zio Mario parrebbe avere tutta l’aria della PROVA PROVATA che gli Orlandi NON vogliono si indaghi nell’ambiente amical parentale. Ma perché questo violento fuoco di sbarramento? Perché andare a caccia di farfalle sotto l’arco di Tito invece di indagare dove fino ad oggi si è potuto indagare poco o niente? Perché si vuole che si indaghi in cimiteri vaticani e perfino tra le mutande e le lenzuola di Papa Wojtyla, ma assolutamente NO su Mario Meneguzzi e dintorni, assolutamente NO sull’ambiente amical-parentale?
La famiglia di zio Mario Meneguzzi minaccia querele a raffica e dichiara che il suo familiare ha avuto una vita “specchiata” con una forte “impronta religiosa”. Non ne dubitiamo. L’impronta religiosa sarà anche stata forte, anzi fortissima, ma certo Papa Wojtyla ne aveva una molto più forte, tanto che oltre che Papa lo hanno anche fatto santo.
Eppure non è stato ritenuto intoccabile né insospettabile da chi oggi si strappa i capelli per il reato di lesa maestà riguardo Mario Meneguzzi. Pietro Orlandi e compagmia bella non hanno infatti esitato a lanciare ANCHE contro Papa Wojtyla le note accuse pecorecce di responsabilità o quanto meno di interessata omertà nella scomparsa di Emanuela.
L’avvocatessa Laura Sgrò, legale degli Orlandi, dichara indignata che con la pubblicazione del carteggio relativo alle avance di Mario Meneguzzi “si è fatta macelleria della vita di una persona”. Peccato che l’avvocatessa dimentichi come e chi ha fatto macelleria della vita di varie altre persone: da don Piero Vergari, rettore della basilica di S. Apollinare, a monsignor Marcinkus, responsabile della banca vaticana IOR, da Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’Interno e poi anche presidente della Repubblica, fino, lo ripetiamo, a Papa Wojtyla e al cittadino qualunque Sergio Virtù.
Possibile che gli Orlandi e i Meneguzzi non si rendano contro che il loro atteggiamento rischia di parere il miglior atto d’accusa contro il loro familiare e dintorni, cioè contro l’intero ambiente amical-parentale?
Passi che Pietro Orlandi ignori i proverbi “corda troppo tesa spezza se stessa e l’arco”, “il troppo stroppia”, “chi di spada ferisce di spada perisce”.
Ma è strano che proprio lui, nato, cresciuto e con una intera vita di lavoro in Vaticano, ignori che “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”.