Genova e la Liguria nella morsa dei crolli e dei processi nel tempo che passa. Ora incomincia il processo parallelo a quello per il crollo del ponte Morandi. Quello che parte dalla galleria Bertè e dalle sue due tonnellate di cemento, precipitate sull’asfalto per un vero miracolo senza colpire nessuna auto. Quello che riguarda la mancata manutenzione delle 2300 gallerie delle autostrade liguri, quello che ha provocato l’inchiesta che inchioda all’accusa 46 imputati, molti dei quali già alla sbarra per il processo principale.
Bisogna ricordarlo che questo secondo processo è stato provocato, non come il primo, dalla immane tragedia del ponte crollato con le 43 vite spezzate, ma da un esito di quella prima inchiesta.
“Se non provvederete voi a intervenire, dove la manutenzione è carente o manca, allora lo faremo noi ingiungendovi di farla”, aveva, più o meno con queste parole, ingiunto a Autostrade di intervenire, Franco Cozzi, il procuratore capo della Repubblica che aveva aperto l’inchiesta sul crollo e che ha il merito con i suoi giudici di avere concluso in tempi rapidi e con risultati sostanziosi una delle inchieste più difficili della recente storia giudiziaria, probabilmente paragonabile per difficoltà a qualche maxi processo contro la criminalità organizzata.
Con la difficoltà in più di enormi accertamenti tecnici.
Questo processo bis parte, dunque, da come i magistrati avevano capito che lo squarcio enorme, aperto da quei 250 metri del Morandi crollati di sotto era solo il segnale di qualcosa di molto più grande: la manutenzione di tutta la rete autostradale.
Il crollo della galleria Bertè era stato il secondo segnale e l’innesco di due procedure parallele, quella giudiziaria del processo bis e l’altra di Autostrade, che doveva correre ai ripari ovunque.
Quasi sette anni dopo le nostre autostrade sono ancora in riparazione e i lavori sembrano complicarsi sempre di più.
Non ne vediamo la fine e misuriamo in termini di disagi crescenti, di incidenti, di rischi, di danni e perfino di morti l’entità di una operazione colossale, che si sta facendo tutta insieme, stravolgendo un intero territorio ligure in una botta sola con conseguenze incalcolabili non certo solo per chi viaggia, ma per l’intera economia della Liguria e non solo .
E con la beffa di continuare a pagare il pedaggio, come se ci fosse fornito un servizio normale e non un disservizio spesso pericoloso per la vita stessa.
Nello stesso modo vediamo lontano il giorno in cui questa immane vicenda, che parte dal sangue innocente versato e si allarga nel disastro della manutenzione mancata per decenni, mentre chi la doveva fare si è riempito la borsa di miliardi di profitti, culminerà finalmente in una sentenza di condanna per i responsabilifinalmente individuati.
Sono passati 2500 giorni dal 14 agosto 2018 ore 11,36, nubifragio su Genova, fulmini anche sul ponte e il crollo, annunciato da tanti segnali, che non si era voluto cogliere da una parte e dall’altra da colossali responsabilità di chi non aveva agito per proteggere quel ponte delicato, costruito solo pochi decenni prima, che doveva essere “attenzionato”, come si dice oggi, e, invece, lo avevano lasciato logorare non solo dalla manutenzione carente, ma da un esercizio esagerato, in un equilibrio infrastrutturale completamente cambiato per un traffico decuplicato da quando l’ingegner Riccardo Morandi lo aveva costruito.
Sono passati 2500 giorni anche da quando la Liguria è in scacco, inesorabilmente, ineluttabilmente. E chi ha pagato e chi continua a pagare oltre alle vittime e ai loro cari se non questa terra, i suoi abitanti, prima di tutto chi viaggia.
La giustizia, quella che aspettiamo da duemilacinquecento giorni fa, non certo per vendetta, ma perché questo è uno dei principi della nostra democrazia, è lenta forse come non avevamo immaginato nei giorni della tragedia, quando l’urlo del dolore era così forte e anche quando avevamo visto procedere così efficacemente e rapidamente l’inchiesta della Procura genovese. La giustizia è lenta, i tempi si allungano.
Questo processo bis, che, appena iniziato, ha già fissato la prossima udienza al 13 marzo, cioè tra due mesi. La giustizia ha i suoi tempi. E’ una macchina sempre mezza inceppata. Cammina con il suo passo di rinvii, soste, scadenze, termini, sostituzioni di giudici, assenze di imputati, mentre la mannaia della prescrizione sta lì sopra sospesa e scende, scende.
I primi reati sono già stati cancellati. Certamente quelli più gravi sono protetti dal tempo che passa. Ma c’è un altro tempo che passa, quello della memoria singola e collettiva. Non certo quella di chi ha perso la vita dei propri parenti, degli amici, che resta viva e lancinante come allora, ma quella più generale dell’opinione pubblica.
Questo tempo, che si riempie di tante altre vicende vicine e lontane, consuma quella memoria oramai decadente.
E allora in questo clima come pensiamo che possano essere pesate, “contestualizzate”, le parole, le deposizioni degli imputati che finalmente hanno annunciato che parleranno in aula, nell’uno e nell’altro processo, che diranno perché è successo, che si difenderanno pure, che tireranno fuori dal loro cilindro, riempito in sette anni di ricostruzioni tecniche, giudiziarie, amministrative, chissà quale versione.
Quelle parole dei principali imputati, di Giovanni Castellucci, l’ex amministratore delegato di Autostrade, che ha annunciato dichiarazioni spontanee per una udienza intera, un silenzio di 2500 giorni e ora un’udienza intera, avranno, comunque, il loro peso giudiziario, ma il loro suono sarà, comunque, attutito da quel tempo trascorso.
E noi vedremo allontanarsi sempre di più quel dramma che ha segnato Genova e che resterà nei libri di Storia.